Non andrà tutto bene. Non diventeremo migliori. Ce ne stiamo già accorgendo. Nel traffico, nelle proteste in piazza. La rabbia ci divora ed io divento ripetitivo come un reboot fatto male.
Ecco il senso del buon vecchio sarcasmo dylaniato dovrebbe essere tutto qua. Saper scherzare delle cose orrende ed usare quello scherno come un antidoto liberatorio. Il secondo arco narrativo dopo il ciclo della Meteora riporta Dylan Dog dove dovrebbe essere. Disincantato e ancora inesperto nella sua disperata missione per conto dell’incubo.
L’avversario di questo trittico è Mana Cerace, una perfetta creatura dei nostri tempi, come di quelli che lo evocarono la prima volta (compare nell’episodio 34, il Buio). Ragazzino e poi adulto vittima dello schernimento dei suoi simili, al poverino non resta che votarsi al male e, una volta uccisosi, ritornare come personificazione del buio. Un baubau moderno e carico di odio che più altro risveglia in una sorta di transfert diabolico le stesse identiche sensazioni anche nelle sue vittime.
Per sconfiggerlo a Dylan normalmente serve solo un po’ di luce o come in questo caso l’aiuto del suo quasi amico-quasi nemico John Snow che qui ricopre un ruolo un po’ ambiguo e teatrante.
In questo caso, come in ogni secondo atto che rispetti, le misure saranno un po’ più drastiche. E credo, per la prima volta da sempre, il rimando al mese successivo dell’ultima pagina è leggermente ansiogeno.
Ma non sono questi i dettagli che contano. Dylan Dog è un’icona del nichilismo anni ’90. Perché come gli zaini Invicta e le camicie da boscaiolo rappresentava l’insofferenza dell’animo umano ad una realtà claustrofobica sempre più volta ad incatenare l’essere umano in gabbiotti minuti da cui per forza poi emergono i mostri.
Per i quali Dylan ci ha sempre insegnato a provare empatia.
Oggi, che anche essere un mostro prima di tutto fa pensare al numero di followers su Instagram, l’idea di Mana Cerace assume le sembianze di un killer vanesio ed appariscente, che si serve dei cadaveri delle donne che ha già dannato per portare ulteriore scompiglio. Chiaverotti e Dell’Agnol ritornano sulla loro creatura, sono loro i padrini de il buio, scompigliando le carte ed utilizzando le tinte forti dello slasher movie per il loro emulo di Freddy Krueger. Dylan è sempre stato un folle gioco alla citazione, quindi la annoto, e la apprezzo.
La notte di Londra è resa più profonda da un dualismo perfetto di luce e buio che lascia poco spazio ai chiaroscuri. Del resto Dell’Agnol e Cattani plasmano il loro stile ad una storia dove i contorni d’ombra solo il nido del male.
Un ultimo applauso ai primi piani di Dell’Agnol. Il Dylan basito, sarcastico, dylamiato che ho imparato a conoscere arriva proprio da quei suoi primi piani e ritrovarli in questo rilancio che è un reboot o che forse non lo è, è un gioco di specchi nostalgico e morboso. Perfetto cioè.