Sarà perché vivo in una città dove le luci al neon in piazza duomo rappresentavano le vestigia di un retrofuturo naufragato alla fine degli anni ’80. O sarà perché prima ancora di avere un modem a 33k disponibile a casa già sapevo che avrei vissuto parte della mia esistenza nel Cyberspazio. Sarà anche perché la fantascienza è uno dei pochi elementi di contatto con mio padre.
Ma ogni volta che sento parlare di futuri possibili qualcosa dentro di me entra in risonanza. Lo studio del futuro, in fondo è lo studio dell’animo umano e delle speranze che gli fanno mettere i piedi giù dal letto la mattina presto.
Il Trieste Science Fiction festival, andato in streaming dal 31 di ottobre al 4 di novembre, ha indagato in questi tempi che già di per sé somigliano ad una distopia.
Relegato ad una versione online per la maggior parte degli eventi, la mostra su Nathan Never è una piacevole eccezione, il festival quest’anno ha collezionato 26000 presenze grazie ad una soluzione per lo streaming che garantiva la possibilità di accedere a tutti i contenuti per tutta la durata del festival. E so che ne abbiamo già parlato, per i festival ci vuole la presenza, la necessità di trovarsi con la propria tribù. Però è anche vero che una soluzione come quella presa in considerazione, al contrario, funziona proprio per la possibilità di poter accedere a tutto il materiale e le tavole rotonde.
All’interno della kermesse è stato dato ampio spazio ai collettivi, alla possibilità di apprendere da chi il futuro lo sta declinando ora, con le nevrosi e le fobie di un presente ammaccato ed in perenne debito di ossigeno. Ma ovviamente il centro nevralgico sono state le proiezioni. Per una volta, e credo che questo sia solo un bene, l’attenzione ha smesso di essere il mercato statunitense. Non vogliatemene, io con i blockbuster ci sono venuto su, ma credo che oramai gli studios siano prigionieri dei loro stessi trucchi. Incastrati in un turbinio di costanti rilanci, hanno perso lo spunto per l’innovazione. E per noi disperati consumatori di visioni futuribili, le piazze di spaccio, si sono ampliate proprio grazie a quel cyberspazio che ha sancito la demarcazione tra il classico ed il contemporaneo.
Così, proprio perché anche dall’altra parte del globo, gli anni ’80 non si decidono a passare, il film che ha fatto man bassa di consensi di pubblico e critica è il russo Sputnik (Egor Abramenko) . Al ritorno da una missione nello spazio, un astronauta viene trovato mutilato dentro la capsula. Ma presto si scoprirà che a tornare non è stato soltanto lui. Un po’ Alien un po’ mistero della camera chiusa, la storia si svolge con una regia angosciante e tormentata. Segno dei tempi : e non credo sia un caso che le opere più estreme tendano a mescolare assieme futuri distorti e orrori mentali che quasi sempre scaturiscono in qualcosa di terribile e concreto.
Ma se i vostri palati sono tra i più raffinati, allora non posso che consigliarvi la Corea. Stilosa, con ambientazioni che prediligono il cyberpunk anche se si tratta di storie di ordinaria sopravvivenza, molto del materiale degno di nota arriva proprio dalla terra del buon mattino. Yeon Sang-ho ci ha portato Peninsula, il sequel di Train to Busan e Seoul Station). Si parla di buoni cari vecchi zombie corridori in questo caso. Ma in uno scenario che mescola un alto numero di ottani alla Mad Max al più classico degli scenari apocalittici con la rappresentazione di una umanità deviata e cannibalizzata. Ma il punto non è quello. Il punto sono i grattacieli con le finestre crepate illuminati dalla luna piena. Le strade riconquistate dalle sterpaglie ed una analisi abbastanza al vetriolo del concetto di pandemia. Seguite i primi minuti per averne un’idea.
Stile pazzesco in ogni caso.
Ma se volete l’opinione del vostro beneamato Flywas, il piatto forte, il vero pugno allo stomaco è una serie TV. Strano, vero ?
SF8. Non lasciatevi distrarre dai soliti saputelli che la bollano come la Black Mirror alla coreana. Non c’entra nulla. O meglio, proprio come le civiltà del far east riescono a dare risposte ai problemi quotidiani di una umanità nevrotica e lobotomizzata, lo stesso lo fanno con il futuribile cyberpunk che aleggia in queste otto puntate, ognuna lasciata ad un regista differente. Ognuna impegnata ad indagare un aspetto differente del futuro prossimo.
Il Cyberpunk sta ritornando prepotentemente. Pensate a Tales from the loop o Westworld. Pensate a Ready Player Two di imminente uscita. Ogni volta che il presente è incerto, sul futuro si abbattono le peggiori tecnofobie.
SF8 è ancora di più. Si analizza il concetto di creazione e quello di intelligenza artificiale. Ci si concentra sull’inquinamento e la segregazione. Più di ogni altro cosa ci si interroga su come risponderà l’animo umano a questi stress.
Come la febbre che da adolescenti viene per far crescere le ossa, la stessa ansia pervade chi si concentra su questi distese di grattacieli illuminati, luci fredde, volti che hanno voglia di piangere. Ed un futuro che per quanto positivo, suona comunque stonato.
Ed è questo che la fantascienza dovrebbe essere. E che con questa edizione del Treviso Science Ficiton è riuscita benissimo.
Portarci ad indagare. Chiederci forte.
Voglio esserci ?