Si avvicina il Natale. Le scadenze. I regali. Lo starsene chiusi in casa. Il rumore di fondo, simile ad un suono bianco, incandescente. Un genitore affronta tutto questo, e se è un genitore single deve moltiplicarlo al quadrato. Per forza, poi capita che perda la pazienza. E che sia nel modo più sbagliato possibile.
Se poi in aggiunta, il suddetto genitore ha i propri conflitti con cui fare i conti, prepariamoci allo tsunami emotivo.
Chuck Palahniuk, nel suo primo indomito romanzo, scrisse che se vivi nel mondo occidentale, tuo padre è il tuo modello di Dio. E potrebbe essere il caso che Dio ti odi.
Di questo parla Tra Due Mondi, tredicesima avventura seriale del Nostro Samuel Stern. E come tutta la narrativa di genere scritta bene, si descrivono mondi di fantasia per indagare a fondo la realtà. La premiata ditta Fumasoli-Filadoro (qui coadiuvata anche da Savegnago e Pugini) usa la possessione demoniaca come metaforico grimaldello per scardinare uno dei drammi più subdoli della vita moderna. La paura di non essere in grado di sostenere le aspettative dei propri genitori. E su come spesso accade che si finisca per divenire il mostro che più si teme.
Così conosciamo Grace, madre single che cerca di tirare sù il piccolo Joshua, ragazzino problematico finito sotto le attenzioni dell’Agenzia e di quel gran bastardo dell’agente Gillian. (A proposito, solo io avverto l’amore verso Torchwood inciso nell’anima di Singularity?). Samuel viene coinvolto quasi di ufficio, ed in fondo, è un’ottima occasione per approfondire la continuity della serie e vederlo calarsi in un contesto molto più ampio di quello che può essere la vecchia Edimburgo ed i suoi quattro diavoli.
Samuel proverà a capire il rapporto che c’è tra madre e figlio. Sappiamo già che è proprio in cui la nostra anima sta per sfracellarsi che nascono i demoni. Samuel qui intravede le crepe ma non tutto torna.
I rapporti familiari sono tesi, ma leggiamo di un demone, anzi, un eresiarca che cerca di tornare da Legione, e che si nutre dei grandi non detti del rapporto genitoriale. Inteso che Grace debba gestire anche quello con i suoi genitori, opprimenti, giudicanti, eppure mai veramente utili. Ma non crediate di leggere questo. Troverete la storia di una intercapedine tra le realtà, di un demone rabbioso e crudele. Della sua capacità di nutrirsi dei piccoli rancori, e delle trappole che la parola famiglia sa generare.
C’è un’oscurità in questa città che si è presa il meglio di noi. C’è un’oscurità anche nella nostra casa, cantava Bruce Springsteen. E ce ne rendiamo conto quando capiamo che la grande potenza di questo racconto è quello di essere una metafora. Vediamo il demone e capiamo solo alla fine che non serve un esorcismo per sconfiggerlo.
‘grazie Samuel, nessuno me lo aveva mai detto prima’, dice Grace in una vignetta così luminosa che sembra spunti il sole.
Il sottotesto familiare rende questa storia profonda e carica di energia. È quasi difficile pensare che questa tensione non sia stata vissuta per davvero. Nell’addentrarci della storia scopriamo un altro aspetto di Samuel, a volte paterno, comprensivo. Capace di rendersi conto, come ne La Casa delle Farfalle, che forse l’aiuto che dà è quello che ha rifiutato a sua figlia.
Ci troviamo davanti ad una storia con poca azione, a limite, con forse il più grande approfondimento introspettivo dei personaggi da quando l’avventura di Samuel è decollata. E malgrado le trame intessute, e quanto di oscuro che attende, comprendiamo, che un lieto fine, se ben strutturato è quanto di più rivoluzionario si possa mettere in una storia.
p.s. la citazione di Philip K. Dick, sottile ma netta, è geniale!