Ho appena finito di vedere Wonder Woman 84. Per una particolare congiunzione astrale, nello stesso pomeriggio in cui ho anche visto l’ultimo trailer della Snyder Cut di Justice League. Stessa attrice, stesso personaggio. Stesso feeling? Non proprio, ma andiamo con ordine.
Intanto una considerazione, ma affatto banale. Non si esce vivi dagli anni ’80. E già dalla seconda scena, quella ambientata in un colossale mall americano ci rendiamo conto che quell’iconografia ci tiene ostaggio. È più forte di noi: vedere quei vestiti, quelle acconciature ridicole ed i colori fluo ci tranquillizza. Tra le altre cose, gli anni ’80 sono quelli della sci-fi in formato blockbuster, quella che continuano a riproporci, surrogata o in reboot. Per chi vi scrive, quegli anni, erano quelli di un futuro promesso e mai ottenuto. Ero troppo piccolo per goderne a pieno. E quando fu il momento, eravamo già con le camicie a quadri e la musica dei Nirvana.
Scelta commerciale, o meno, l’ambientazione è accuratamente studiata per essere funzionale alla storia e tra poco arriviamo al perché. Diana non è invecchiata di un giorno e piange il povero Steve Trevor morto durante il primo conflitto mondiale. Lavora allo Smithsonian di Washington DC cercando di celare al mondo la sua presenza. Un’esistenza mesta per la verità, concentrata su quel vuoto nel suo cuore che non vuole riempire assolutamente.
La routine viene modificata quando al museo compaiono nell’ordine Barbara Minerva (che noi nerd sappiamo essere la futura Cheetah) e Maxwell Lord (il sempre più presente Pedro Pascal). Se vi aspettate di vedere una delle più leggendarie scene dei comic books DC con protagonisti Wonder Woman e Maxwell Lord, non trattenete il respiro, perché non succederà.
Quello che succede invece è che compare sulla terra una pietra capace di esaudire i desideri. Come si sa bene, in questo tipo di incantesimi c’è sempre la fregatura, ma ciò non impedisce ai tre protagonisti di cascarci con tutte le gambe.
Ora, sin dalla prima scena, ambientata a Themyscira con una Diana ancora giovane, capiamo che il tema portante della pellicola è il non vivere una bugia. Non tanto ingannare, ma proprio non accettare i colpi bassi della vita e portarsi dietro quel senso di ingiustizia che ci incapriccia l’esistenza. Per Diana, il fucile di Chechov è il ritorno del suo Steve. Ma per gli altri, la consapevolezza che non si esce davvero dal trauma delle high school americane. Sia Maxwell che Minerva sono sempre stati impopolari e quando arriva il loro momento, cercano una rivalsa. Quando è il loro momento, la frustrazione incamerata trova libero sfogo e quasi disintegra quello che c’è di buono nel loro cuore.
La storia si evolve in maniera molto lineare fino all’inevitabile showdown che, da solo, vale il prezzo del biglietto. Il crescendo drammatico, la rivelazione di Cheetah nella sua vera forma e Diana con l’armatura presa in prestito da Kingdom Come, solleva l’asticella per un film che, tra le altre cose, si porta dietro l’ingrato compito di essere il primo cinecomics dopo più di un anno di dieta continuativa.
So che i puristi, storceranno il naso. So bene che i film DC sono vittime di un partito preso che li vede fallimentari già a partire dalla locandina. Ma vi assicuro che la sceneggiatura è molto buona.
Ci sono solo due limiti, che possono essere intrinsechi. Il primo, è che al contrario degli altri due membri della trinity, Wonder Woman non è dotata di una vera motivazione, e questo la incasella purtroppo tra il manipolo dei super eroi generici.
Il secondo è la regia. Se la storia è ambientata negli anni ’80, la regia è quella che potrebbe essere di un cinecomics anni ’90, semplicistico, forse troppo lineare. Dotato in più di effetti speciali che, a volte necessiterebbero di un sostanziale miglioramento. Si tratta di un limite che abbassa non di poco la valutazione finale.
Che pure riguarda un film che regge bene fino alla fine e che contiene una delle scene post crediti, tra le più spassose di sempre.