Scrivo con il raffreddore. Non mi piace, specie di questi tempi. Quando uno è raffreddato, la testa gira molto più veloce del corpo e si fatica a rimanere in sincro. Di conseguenza, anche le cose che sono normali, costano più fatica e spesso si ha una sensazione straniante, di perenne disconnessione.
E poi arriva il numero quattrocentosedici, con un Mauro Uzzeo che scrive in gran spolvero. E che non fa altro che incrementate questa sensazione di leggere una storia weird, lontana dalle usuali dinamiche della serie ma talmente morbosa da essere affascinante e spingere verso il crescente bisogno di volerne di più. La storia, peraltro, è la prima parte di due, altra cosa abbastanza inusuale, ma che funziona per dare spazio ai tempi narrativi estremamente dilatati.
Perché questa storia nasconde dietro un contesto straniante, una verità pirandelliana. La nostra pelle è il vestito per chi ci riconosce da fuori, con le nostre abitudine e le nostre idiosincrasie, ma dentro è tutta un’altra faccenda. Il pulsare di organi e materia organica ci lascia letteralmente nudi davanti alle nostre ipocrisie e alle nostre abitudini.
Così Dylan, che esce a cena con la solita nuova ragazza, viene coinvolto in una diatriba con due poliziotti di quelli terribili. Taser, manganello e tanta voglia di fracassare ossa. Dylan non vuole farsi coinvolgere, ma alla fine ci finisce dentro con tutte le scarpe e viene prima atterrato e poi arrestato. Tutto perché è intervenuto quando avrebbe semplicemente potuto girare la testa dall’altro lato. E non aveva documenti di riconoscimento. Ma non fermatevi nei dettagli. Tutta la sequenza iniziale dà l’idea di un colossale abuso. Dylan si trova in un imbuto che diventa claustrofobico man mano che la situazione diventa più pericolosa e prima che possa rendersene conto finisce in cella d’isolamento.
Qui inizia davvero tutto. La claustrofobia di prima è ridicolizzata dalla sensazione di essere in una prigione fredda dove nessuno risponde, dove ti chiedono di dichiarare un crimine che sei convinto di non avere commesso. E di conseguenza non conosci. Sull’aspetto grafico, su quell’alternanza nettissima di luce e buio che non fa che complicare la situazione, torniamo tra un attimo.
Il personaggio, perché a questo punto potrebbe esser chiunque, estraniato, isolato, riesce a recuperare un po’ di spazio ed incontrare altri inquietanti figuri che popolano quella che sembra con tutte le ragioni una prigione di massima sicurezza. Il viaggio nella follia diventa quasi onirico, nella misura in cui si tratta di un sogno orribile da cui non si intravede risveglio.
Gente come lui gira in tondo, con la pelle rimossa, muscoli e nervatura in vista. Asseriscono di essere riusciti a vedere la luce anche se per un breve istante. Sono tutti condannati a morte per omicidi che non hanno commesso. Ma che, in un attimo di verità, hanno visto quello che c’è sotto il velo.
La consapevolezza arriva in un attimo di lucidità anche per Dylan. Un carcere senza uscita è la sconfitta dell’umanità. E la critica serrata alla pena di morte, neppure troppo celata, meriterebbe quaranta minuti di applausi. Al netto del colpo di scena finale che essendo una storia in due parti non può che essere un cliffhanger.
Mauro Uzzeo svolge un lavoro fantastico nel creare un incubo che solo la mente di Dylan Dog potrebbe concepire. Ma in realtà è l’efficacia grafica di Arturo Lauria a spingere prepotentemente sull’acceleratore. Il suo stile, già testato sui Color Fest, qui si spinge verso un’estrema dicotomia di bianchi e neri. E non potrebbe essere altrimenti in una storia in cui vedere la luce è un elemento chiave. Le sue tavole sono zeppe di corpi deformati e affranti. Le espressioni facciali tirate, quasi a rappresentare delle bambole umanizzate contribuiscono a rendere la storia alienante. Mentre in certi punti il rimando chiaro è al Frank Miller di Sin City, in molti altri il richiamo è a Richard Corben, ma non solo. C’è moltissimo nel suo tratto che spinge per emergere gridando a forte voce.
Le sequenze iniziali dentro la prigione sono esemplari di uno stile claustrofobico che ben si adatta alla materia narrata. In una scena in particolare, che non voglio anticiparvi, la gabbia a sei vignette viene mandata in frantumi ed il ritmo dilatato vi genera dei vasi comunicanti, facendo letteralmente implodere il concetto di spazio bianco.
Mauro Uzzeo e Arturo Lauria creano una storia che deve essere pubblicata in tavole giganti quanto prima, un vero e proprio quadro d’autore che stacca con la routine di un albo seriale, passando al livello successivo e colmando ogni effetto straniante.
È un’altra di quelle storie che farà polemica e non farò contenti tutti. Ma va bene così, perché un personaggio come Dylan Dog non po’ permettersi di essere accondiscendente. E perché maledizione, una storia così esistenzialista, frantuma ogni sipario tra generi spingendosi nella stessa sostanza di cui sono fatti gli incubi.
Ed è solo la prima parte.