Ritornare alle pagine del misterios* managaka è un viaggio senza tempo in una dimensione dove le regole sono differenti e bislacche.
Il mondo si cela in delfini utilizzati come calcolatori e stazioni della metro fantasma. Ma non basta analizzare questi dettagli per approfondire la poeticità di Panpanya. In realtà credo che anche cercando di dare una chiave di lettura ai lavori di questo eclettico mangaka, in qualche modo si sbaglia.
Le storie surreali, metafisiche di cui è protagonista la bambina della serie sono rarefatti e controintuitive come molti sogni dovrebbero essere. L’immaginario che queste storie portano alla luce è diviso in egual misura tra le suggestioni dello studio Ghibli ed i racconti di Murakami Haruki. Se guardiamo con la giusta attenzione, dobbiamo per forza renderci conto che, in fondo, si tratta di una attenta analisi della spiritualità nipponica.
Chi immagina gli abitanti della vecchia Edo come cittadini della città elettrica di Akihabara, intenti a pascolare sulle strisce pedonali diagonali di Shibuya, trascura l’aspetto spirituale, che emerge in ogni piccolo dettaglio, basta prestare attenzione.
In Pillowfish, dove pure alcune storie sembrano trasudare un’anima molto più riflessiva, ci troviamo in un immaginario dove nulla è effettivamente impossibile. In sostanza non ci sono molte regole che la piccola protagonista deve seguire. Tutti i suoi viaggi camminano nel corso di una esplorazione, una passeggiata ma anche una semplice considerazione basata su qualche ideogramma.
La realizzazione grafica segue esattamente lo stesso stile. Contrariamente ad una gestione forse un po’ troppo stereotipata del genere manga, le storie che compongono questo secondo tankobon sono prive di retinature. Al contrario il tratto è dettagliato e meticoloso. Ci sono alcuni particolari, soprattutto legati alle piccole stradine che si inerpicano tra case tradizionali e palazzi moderni che danno un senso di profondità alla tavola, tale da renderla quasi viva.
Sfiorandola con le dita si può quasi pensare di venire risucchiate all’interno. Il contrasto caratteristico è proprio quello tra i personaggi, caricaturali, bislacchi, legati da ogni forma di logica e tutto il resto. Questa frizione contribuisce a rendere le storie godibili ed intriganti. Ed il risultato più ovvio, è che finita una storia, ne vorremmo leggerne assolutamente di più-
Il formato dell’episodio autoconclusivo permette di esplorare una vasta gamma di sensazioni e dettagli. In più alcuni elementi trasmigrano da una storia all’altra con un continuo gioco interno di rimandi.
Colpisce subito come, malgrado ogni settimana vengano stampate tonnellate di manga destinati a scadere nel cliché della maghetta, del guerriero barbaro o della licenza di un giocattolo, che invece queste storie hanno una dinamica completamente differente. Il fumetto giapponese sembra vivere una dimensione autoriale parallela rispetto alle produzioni più blasonate ed amate dai fan. In questo caso sicuramente è merito dell’alone di mistero che circonda l’autor*. E anche del fatto che la dimensione web comics ha portato queste storie a far affezionare un differente genere di pubblico.
Potremmo dire con estrema sicurezza che se, questo formato in altri paesi ha dato battesimo alle più curiose forme di creepy pasta (pensiamo al nostrano Joike), quelle di Panpanya sono un’analisi marcatamente ribaltata e pacata di come una creepy pasta potrebbe essere in questo strano Giappone.
E, indovinate, il sole splende. E dietro l’angolo si nasconde solo la bellezza di essere un altro giorno nel mondo.