Avevamo lasciato, poche settimane or sono, Dylan nel mezzo di una delle storie più visionarie e disturbanti mai lette. Uzzeo e Lauria ci avevano spinto nella direzione di una demenza allucinante e senza salvezza che sembrava lasciasse ben poco margine ad un presunto ritorno a qualche forma di normalità.
E non vi nascondo di essere rimasto un po’ spiazzato ieri, quando leggendo i credits di questa nuova storia, ho scoperto che i due partner in crime passano il testimone a Barbara Baraldi e Angelo Stano. Spiazzante, come vi dicevo, ma non per questo meno interessante. Tutt’altro.
Qui sarebbe interessante comprendere i due team di sceneggiatori come hanno collaborato e fino a che punto la connessione tra le due storie sia stata studiata. Perché, di fatto, al di là del concetto principale, Dylan è accusato dell’omicidio di una ragazza, le due storie procedono su binari paralleli. Tanto introspettiva e straziante la prima, molto più chirurgica e ansiogena questa seconda.
Il punto di partenza usato dalla Baraldi è quello che una mente sotto stress si racconta una verità che riesce a sostenere fintanto che elabora il trauma. Ed il meccanismo delicato in cui viene inserito questo elemento consente di rileggere in chiave ancora più simbolica l’episodio precedente.
Al contrario, quello cui assistiamo è un procedurale sui generis, dove solo Dylan finisce invischiato in un turbinio di indagini volte a dimostrare la sua presunzione di colpevolezza. Ilary, si scoprirà poi, non è una sua amica ma una ragazza scomparsa sulle cui tracce Dylan è finito per una serie di circospetti eventi. Macchiatasi di una colpa atroce da giovane, non se ne è più saputa riprendere fino a quando non le è stato proposto la possibilità di trasferire i segni di questo peccato originale ad un oggetto inanimato.
Man mano che la storia si svolge, Dylan comprende che quelli che credeva ricordi sono invece punti chiave di questa nuova situazione. Ricordi nascosti dietro messaggi cifrati che portano ad una casa di Londra fatiscente ed abbandonata, uno scienziato pazzo e due assistenti che portano sulle spalle più l’essenza dei bruti che di ogni altra cosa.
La narrazione è impartita in un giro concentrico di eventi che man mano portano a dispiegare la realtà per come Dylan la vive ed annientare il suo senso di colpa. In questo viaggio si riconoscono gli elementi topici della narrativa di Barbara Baraldi dalle bambole assassine alle torture innaturali. Tutta la storia aziona un meccanismo difensivo che si disinnesca soltanto nel finale liberatorio e, solo in parte, rasserenante.
Angelo Stano e la sua linea chiara si pongono in netta controtendenza alla narrativa di Lauria. Tanto quanto le ombre ci affascinavano e concupivano, tanto ci troviamo di fronte ad una luce quasi clinica che mette l’orrore in primo piano svelandone i denti aguzzi e la fame imperterrita.
Stano è ben capace di deformare i volti, le espressioni evidenziandone le mostruosità ed i ragionamenti deviati.
Rimane, come dicevo, un’operazione coraggiosa che preme forte sul pedale della continuità narrativa, tanto teorizzata, e a volte anche vituperata, da fan e detrattori. L’escamotage di mettere il personaggio in una situazione complessa lasciando ad un altro team l’incombenza di risolverlo è di matrice squisitamente DC comics, ma è la prima volta che lo vedo sviluppato in un contesto differente. Tra l’altro una bella prova che ci restituisce un Dylan classico ma inserito nel contesto della continuity contemporanea.
E, a proposito di continuity. Cosa se ne farà Dylan del nuovo oggetto da collezione, appena arrivato a Craven Road ?