All’inizio ho guardato i disegni con sospetto con una domanda in testa dall’inizio alla fine, senza leggere una sola riga né delle didascalie né dei dialoghi: “Ma gli fanno pure pubblicare un fumetto?”.
È la domanda che si fanno quelli che guardano le cose con distacco, quando vedono fumetti non nei loro canoni estetici e credono che tanto due scarabocchi sono bravi tutti. E invece no. Di solito preferisco altri fumetti più curati nella forma e nei disegni, ma in questo caso trovo che le scelte dell’autore siano pertinenti con quello che vuole comunicare e con il suo stile unico. L’ho letto in una notte dall’inizio alla fine senza staccarmi dalle pagine per vedere come andava a finire e sentendomi ad ogni capitolo più coinvolta e più curiosa. Questo non lo sanno fare tutti.
Giangioff (pseudonimo di Gianluca Giovannini) riesce a non avere filtri, è schietto e sincero, va fino in fondo e non si preoccupa di fare l’occhiolino al lettore con dialoghi confezionati o vignette seducenti. Il disegno e i dialoghi sono direttamente collegati al suo pensiero, messi su carta senza pensarci due volte, quasi come una biografia con alcune battute che potrebbero essere state colte per strada durante una conversazione tra amici.
Dalle prime vignette Gian, il protagonista, è un disadattato, uno che vive secondo una legge di vita tutta sua fatta di alcol, canne, amici; dovrebbe essere un’artista, ma si esibisce senza pubblico e senza nessuna idea di quello che voglia davvero comunicare. La sua vita non gira nel verso giusto e già questo ce lo fa sembrare simpatico. Dopo l’incontro con la ragazza, “pelata” come la chiama lui, tutto cambia e i giorni che passano insieme con gli amici in una casa in campagna gli fanno vedere una nuova prospettiva. In tre parole sembra una storia semplice di un ragazzo che non ha trovato un posto nel mondo e nemmeno un obiettivo e poi si innamora. C’è pure un lieto fine, come nelle storie più classiche. In realtà leggendo il libro ogni cosa capita in modo sorprendente: ad esempio all’inizio sul palco del pub Gian deve cantare, ma non ricorda le parole così canta del genocidio degli armeni, una cosa che fa ridere leggendola, sembra surreale, eppure è un evento tragico accaduto realmente. L’autore riesce in ogni modo a far spostare l’attenzione del lettore e fargli vedere le cose con il suo punto di vista, sfasato dal reale, completamente indotto dalla sua immaginazione e dalla sua personalità borderline tra ironia e senso di vuoto.
Ad un certo punto le tavole prendono colore, credo acquerello, e ci portano in una dimensione di gioco e di stupore. I protagonisti del fumetto diventano cavalieri e per vincere il gioco devono superare delle prove. Gian e i suoi amici giocano ad un gioco da tavolo, ma portano il lettore a credere che sia reale così come fanno loro mentre si immedesimano nei loro personaggi. Il gioco diventa più reale delle loro vite e in questo modo anche il protagonista riesce a credere di poter essere un cavaliere, di non avere paura e di potercela fare anche nella sua vita che fa schifo e che deve cambiare. La prospettiva cambia, Gian sente di avere un obiettivo e di poter essere migliore di quello che crede. Sembra facile, eppure è qualcosa che rappresenta una generazione di ragazzi sull’orlo del precipizio tra il nichilismo e l’apatia, ragazzi che non sono cresciuti ancora e sono legati al mito dell’adolescenza per sempre, di chi non riesce a prendere una decisione e cerca di aspettare il momento e di vedere come andrà senza impegnarsi per paura o solo perché non c’è niente davvero a cui credere.
C’è il capitolo in cui ballano da fermi che per me è davvero qualcosa di poetico e di surreale, ben calzante con tutto quello che rappresentano i due ragazzi con la loro storia d’amore strampalata, credo che siano le vignette che ricorderò più a lungo.
Ogni capitolo è come una micro storia con uno svolgimento e un finale che si collega alla storia del protagonista e vede nel finale un epilogo da un lato poetico che lascia al lettore qualcosa su cui riflettere, dall’altro ironico e divertente come un gioco narrativo: nel fumetto Gian scrive un racconto su un vetraio che costruisce uno specchio, una meta narrazione che spiega anche il senso del fumetto stesso e si conclude con una domanda rivolta al lettore.
Anche se i testi sono più ingombranti dei disegni, anche se i disegni non sono perfetti e non sono nei canoni dei miei fumettisti preferiti, l’autore riesce a trasmettere qualcosa e questo è quello che dovrebbe fare un’opera: portare qualcosa in più al lettore, spingerlo a guardare da un’altra prospettiva, fargli emergere dei dubbi, interrogarsi sulla sua vita e su quello che è reale.
Sicuramente non è un fumetto che consiglierei a tutti. Consigliato a chi ama i giochi di ruolo, a chi vede nelle storie qualcosa di più della loro struttura narrativa e non si preoccupa di scene di sesso in cui non si nascondono i pensieri più intimi. Consigliato a chi è ironico e a chi sa vedere oltre le pagine di una storia quello che riesce a trasmettere un autore, sicuramente in crescita perché ha qualcosa da dire, non solo da disegnare.