Ci arrivo quando lo hanno già fatto tutti. Che, in fondo, mi lascia più libertà d’espressione. E non è stato facile considerando che mi sono avvicinato a questa serie con tutte le perplessità del caso. Tanto per cominciare perché è da un po’ che ho l’impressione che Michele sia sovraesposto. Troppi volumi, troppe comparsate in tv.
E poi, qualche tempo fa, l’annuncio di essere interessato anche all’animazione. Lo avevamo visto a Propaganda, l’anno scorso con la sua Rebibbia Quarantine. Ma si capiva che, oltre l’anima, il lavoro poteva sembrare amatoriale. Perfezionista, ma amatoriale.
Qui, supportato da Netflix e coadiuvato dallo studio Movimenti di Firenze, un team di circa 200 persone, il risultato è ben differente e, naturalmente più evoluto e dettagliato.
Eliminiamo i vincoli prima di ogni altra cosa. Il romanesco è un non problema. Certo serve ad aumentare i flame su internet. Ma diciamoci la verità : i brianzoli recitano a memoria le battute di Genni Savastano e Michele Rech sarebbe un problema? Siamo seri. Sulla dizione potrei anche essere d’accordo, alcune volte si mangia le parole. Ma io ho lo stesso problema per cui non ne percepisco i limiti.
La sovraesposizione emerge prepotentemente in alcuni sketch (principalmente quello della pizza) riciclati da altri media. Che è una cosa che si potrebbe tranquillamente evitare. E naturalmente Zero gioca sul sicuro fornendo un adattamento in chiave leggermente minore de la Profezia dell’Armadillo, il suo primo volume. Quello scoperto da Makkox che lo ha definitivamente consacrato come autore culto della sua generazione.
E direte voi, cosa c’è di male ? Praticamente nulla, in effetti, se una storia ha già funzionato benissimo in termini librari perché non usare un amplificatore potentissimo come Netflix per farla arrivare a più persone possibile? Che è quello che succede, e succede bene, perché la storia, animata, colorata, con alcuni tocchi stilistici di gran classe funziona alla perfezione.
La meccanica è ben studiata, Zerocalcare, ci introduce ai suoi riferimenti pop, alla sua cultura politica: per cui viva la bandiera dell’YPG e no, il Secco non parla di gelato per citare la droga, ché sono straight edge. E sono sicuro che ora che anche questo termine è sdoganato, molti lo utilizzeranno più o meno contro natura.
In ogni caso questo turbinio di riferimenti pop, citazioni, battute ad effetto e parolacce a volte troppo facili ci conduce ad abbassare le difese. Ed una volta che siamo al centro di tutto questo, completamente affascinati dal riconoscere come un riferimento ad una serie tv di fantascienza possa essere arrivato a tante altre persone, mettendoci automaticamente nella stessa tribù, che arriva il colpo basso, quello che non ti aspetti. Quello che agli americani fa storcere il naso per assenza del politicamente corretto trigger warning.
Zero racconta la sua gioventù, i suoi amici di sempre Secco e Sara, la vita di quartiere le nevrosi e le paranoie. E poi La ragazza, Alice. Con cui intesse una relazione che è quasi una corrispondenza di amorosi sensi. Tutti troppo intenti a studiarsi, perché il primo che abbassa la guardia si prende la botta in faccia. O l’accollo, ci arriviamo tra poco.
Perché come dice l’Armadillo, con una fantastica voce di Valerio Mastandrea. Zero è cintura nera terzo dan nell’arte di schivare la vita. Che lo facciamo tutti per non farci mani. Tralasciamo l’armadillo e tiriamo in ballo il porcospino di Evangelion/Schopenhauer.
Gli anni di formazione trascorrono e Zero ed Alice si avvicinano poi si allontanano. Poi si perdono e si arriva al finale. Che non vi anticipo, tanto lo trovate spoilerato praticamente ovunque. Ma una cosa è ovvia, se abbassi la guardia, e tanto prima o poi la abbassi, la pezza in faccia ti arriva. E allora tanto vale farlo quando vuoi tu, e non quando decidono gli altri.
L’aspetto filosofico che coinvolge l’ultimo metafisico episodio è quello. Smettere di guardare gli altri considerandoli perfetti, personaggi non giocanti del nostro personalissimo film. Tutti vivono una vita che non è perfetta, tagliata lungo i tratteggi. A pensarci bene, già i pochi secondi di sigla cantati dal mitico GIancane dovrebbero spiegare molto se non tutto.
Una nota raffinatissima è proprio a pochi minuti dalla fine dell’ultimo episodio. I personaggi, tutti, smettono di essere doppiati da Zero e prendono delle voci che sono quelle delle persone vere (sentiamo davvero la voce di Secco e di Sara? Vorrei crederlo). È il momento in cui si entra in contatto con gli altri e si smette di percepirli come nostra emanazione.
E maledetto Zerocalcare, io mi ci volevo mantenere cinico e distaccato, invece pur sapendo tutto della storia, ci sono cascato lo stesso e mi sono portato a casa un po’ di magone.
Tecnicamente la serie è realizzata in maniera impeccabile, senza sbavature e con un crogiolo di riferimenti pop. Probabilmente nella parte centrale si allunga il brodo e, in cinque episodi e mezzo si sarebbe potuto dire tutto quello che serviva.
Ma se alla fine vorrei solo averne di più, direi che l’effetto ha funzionato, e la narrativa, precisa, si chiude con un percorso delineato per tutti i personaggi. Che crescono. E che si vorrebbero vedere di più. Molto di più.