Per parlarvi di questo volume dovrei semplicemente fermarmi a pronunciare il nome dell’autore : Daniel Warren Johnson. Tra tutti gli autori del gotha del comicdoom americano, Daniel è il più rocambolesco e, allo stesso tempo il più capace di spingere i propri personaggi oltre ogni limite. Che si tratti della distopica Wonder Woman di Terra Morta o del cast di personaggi di Murder Falcon, il suo tratto è evocativo come pochi e la capacità di coinvolgere si spinge ben oltre i limiti della singola tavola.
Come già in Terra Morta, devo dire che ho trovato alcuni spunti fortemente debitori del Johji Manabe di Outlanders (che fine ha fatto?) . Astronavi enormi e senzienti, gigantismo animale, ragazze sensualissime e sfortunate. Molto della poetica di questo autore è debitrice dei manga anni’80 a tema fantasy/fantascientifico. Ma non si inquinino i fatti. Daniel Warren Johnson sta per esplodere, e sono certo che quando lo farà, una nuova rivoluzione copernicana esploderà sul mercato americano.
Però credo anche sia giusto che un autore simile, riesca a centellinare la sua presenza. Anche perché tavole della sua portata, così pieni di dettagli e di cose che accadono, non si realizzano in cinque minuti di tavoletta grafica.
Al di là dell’armonia dei colori, mai sopra le righe, la percezione che se ne riceve è proprio quella di un autore capace di dosare l’impeto grafico e domarlo al fine dell’impatto narrativo.
La sua predilezione per scenari epico cosmici non conosce rivali. Ed è stata una gran mossa della Marvel affidargli un personaggio triste e solitario come Beta Ray Bill. Partiamo dal titolo. Stella d’argento. Non è quella degli sceriffi, ma quella che si regala agli eterni secondi. Perché in fondo questo è Bill, un eterno secondo di fronte a quel Thor Odinson che malgrado tutte le sue cadute, riesce sempre a trovare il modo di alzarsi più coriaceo e scintillante di prima.
Proprio sulle pagine del tonante, Stormbraker, il martello donatogli da Odino che gli permetteva di riassumere una forma umana è andato distrutto e adesso Bill è depresso perché la sua forma cavallina non li permette certo di essere l’idolo delle donne. La scena alla fine del primo episodio tra lui e Sif è alquanto emblematica. Ma non dobbiamo fermarci alla bieca esteriorità.
La maledizione di Bill è quella di non riuscire ad eccellere. E non poter eccellere lo relega a ruoli di comprimario. O a spingersi in missioni suicide che gli permettano di recuperare se non la forma, almeno la dignità che lui crede smarrita per sempre.
Così, dopo aver affrontato Fing Fan Foom in chiave simbiotica (evento legato a King in Black) Bill parte per un viaggio alla ricerca dell’unica arma che potrebbe donargli la normalità. Si tratta della stessa spada che Surtur utilizzò per massacrare la sau razza all’inizio del ciclo ormai leggendario di Walter Simonson.
Nei cinque episodio che compongono la mini serie, non ci viene risparmiato praticamente nessun colpo di scena. Bill attraversa l’universo e le dimensioni assieme alla sua ciurma praticamente irreale. Il troll Pip, da sempre un altro outsider, Skurge, in ritorno dal Valhalla solo per questa missione, ed una forma antropomorfizzata di Skuttlebot, la sua astronave lo porteranno a fronteggiare lo stesso Surtur, in uno scontro terribilmente fisico e violento. Incontro che, ancora una volta deve moltissimo alla cultura orientale e, infatti, l’aria che si respira è quella del Go Nagai più classico.
Botte da orbi, insomma, in un crescendo esplosivo ed apocalittico. Ma legate ad un contesto perfettamente funzionale e mai deludente.
Si tratta di una fottuta corsa sulle montagne russe i cui personaggi sono resi con la massima urgenza.