Scrivere di fantascienza non è mai troppo facile. Bisognerebbe essere come Philip K. Dick ed avere visioni sul futuro da interpretare acidamente e contestualmente al presente che viviamo. Insomma non una cosa proprio per tutti.
Eppure ogni tanto emergono cose che, sebbene rimescolino elementi topici del genere, producono elementi originali e capaci di lasciare un segno ben netto.
Chi abitualmente legge Koren Shadmi sa di cosa parlo. La sua capacità narrativa permette di delineare con claustrofobica precisione ambienti e situazioni lasciando ugualmente spazio alla mente di divagare. NPE ha pubblicato questo nuovo volume, Highwayman pochi mesi fa e le suggestioni create sono tali da pensare ad un mondo così ampio da volerne di più e ancora di più.
La struttura di Highwayman è quella di racconti brevi, poche pagine ciascuno, ognuno impregnato di solitudine ed ennui. Il protagonista delle storie potrebbe essere un David Bowie appena più atletico. Con il vecchio duca bianco condivide anche la differente colorazione dei due iridi, elemento però portante di tutta la vicenda.
Lucas a in giro per le autostrada portandosi dietro una sacca di tela. Chiede passaggi a sconosciuti, vede pezzi di mondo e spesso e volentieri si fa del male, si ferisce gravemente ed in maniera irreparabile. Solo che Lucas non può morire, per cui, alla fine di ogni storia è sempre lui ad avere l’ultima scena.
Il suo fattore rigenerante è qualcosa che abbiamo già visto in un fumetto (non è vero, amici ghiottoni?) ma in questo libro non emerge nessuna carica vitale. Lucas non cerca di sopravvivere, in un certo qual modo potremmo dire che sia animato da un death wish, ma forse la cosa più corretta è che lui sta cercando di capire, testare, le estremità del suo potere.
Perché Lucas non è sempre stato così, anzi, era un semplice essere umano in un’America ancora coloniale, poi qualcosa è successo che lo ha portato a divenire quello che è tutt’ora. Non raccontarvi cosa sia, è un peccato vero, ma farlo significherebbe rovinarvi la lettura.
Vi basti saper che qualsiasi elemento del minimalismo studiato di Lucas ha un suo senso perfetto nell’armonia della storia. I racconti che si susseguono, in linea di massima in ordine cronologico, spostano l’orizzonte degli eventi ogni volta di qualche decade più in avanti.
Il tempo passa, la razza umana danza sulle ceneri del mondo e alla fine si estingue. Cambiamenti climatici, distruzioni bibliche. Tutto passa, tranne Lucas e la sua sacca di tela. Anzi, non è proprio esatto, perché nella storia farà conoscenza con altri come lui, spesso impazziti o in preda al delirio. Fino ad arrivare ad un finale metafisico tra i più belli e sensati della sci-fi fumettistica.
Al di là di ogni altra cosa, il senso del viaggio di Lucas, è il viaggio stesso. Lucas è un viaggiatore tetro, depresso ma attento. Quello che succede attorno a lui lo attraversa senza sfiorarlo eppure viene irrimediabilmente registrato.
In tutto questo il ritmo narrativo ha una componente quasi naturalista che fanno del libro un’opera complessa e ben sviluppata. Gli elementi narrativi, la visione del futuro, la decadenza dell’essere umano sono elementi chiave che proprio come nella versione cartacea di Blade Runner (Gli androidi sognano pecore elettriche, ma non devo dirvelo) vengono sommersi dalla palta e dall’entropia. Fino a sprofondare verso la fine.
Il tratto solido di Shadmi accompagna queste tavole seguendo un ritmo che è scandito da eventi tragici. Il passeggiare solitario di Highwayman è tetro e deprimente. Inciso nella pietra da un tratto meravigliosamente statico ed espressionista.
Ed a noi non resta altro che continuare a leggere.