Dylan è un personaggio che vive per definizione nella metropoli più multietnica di tutta Europa. Per quelli come me, cresciuti col mito di Londra alla fine degli anni ’80, passeggiare per le strade centrali, groviglianti vita e luci al neon, per poi rifugiarsi alla Tower Records, era uno statement, una dichiarazione di esistenza.
Per questa ragione mi sono sempre meravigliato che i personaggi di ogni episodio fossero tutti di matrice wasp (si potrà applicare il termine anche al vecchio continente? Facciamo finta di si!). Non basta, anche tutti i comprimari, fino a pochissimo tempo fa erano caratterizzati dalla stessa etnia riuscendo a rendere, se possibile, ancora più estraniante il paradosso di Dylan cacciatore di mostri, dalla parte dei mostri.
Da qualche anno tutto questo, per fortuna non è più, e finalmente il cast di comprimari comincia ad assumere una squisita concezione multietnica che, ovviamente distribuisce realismo all’ambientazione.
Eppure di ambientazioni con diretto rimando alla cultura africana, ce ne sono davvero poche. Eh si che già nel 1978 i Clash cantavano White man in Hammersmith Palais.
Comunque. La storia di questo episodio ha un sottotesto che rimanda all’attualità politica più atroce e terribile delle ultime decadi. Semmai anzi, la sceneggiatura della Contu, sacrifica troppo la parte sovrannaturale proprio in funzione di una più chiara comprensione della realtà dei fatti.
Si tratta di una storia in tre atti, anticipati tutti da un parallelismo con il mondo della savana. In un mondo senza remore morali si aggirano predatori, prede ed avvoltoi. Ed ogni capitolo ci spinge sempre di più verso la comprensione della verità.
Un uomo va a raccontare a Dylan di essere perseguitato dal suo senso di colpa. Un uomo, perseguitato nel proprio paese per le proprie ideologie politiche, è costretto a scappare e rifugiarsi su un barcone, una di quelle carrette del mare che ci sono tristemente note. E nella sua storia, lui sopravvive al contrario degli altri.
E questo non lo fa respirare, il senso di colpa lo attanaglia, è convinto di essere perseguitato da tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Si dice un uomo mite, una vittima, ma i suoi modi raccontano una storia differente.
Tanto che Dylan stesso non si convince ad accettare il caso e, addirittura lo pedina per cercare di capire di più sulle sue parole.
Inutile dire che quello che finirà per scoprire farà parte di una storia totalmente differente che non lascerà spazio a false pietà presentandosi con un finale che non sarebbe spiaciuto ad Agatha Christie.
Daniele Caluri, nome legato a Don Zaucker, illustra la storia in un contrasto di bianchi e neri molto netti, quasi a voler significare la stessa divergenza che le parole di Gabriella Contu ci racconta. Il suo tratto è molto classico, perfetto per un albo d’avventura targato Bonelli. Nelle espressioni facciali, specie quando predominano rabbia e turbamento, dà effettivamente il meglio, rappresentando al meglio questa gamma di sentimenti.
Si tratta di una storia molto interlocutoria, che graffia, ma tenendo il paragone con la savana, non uccide. Il tema è tra i più importanti che potrebbe raccontare un fumetto popolare anche se forse avrebbe potuto osare di più.
Coraggiosa l’idea di spostare Dylan dai suoi soliti lidi e spingerlo in un ambiente più ampio. Esempio che dovrebbe essere seguito spesso, mostrando altri angoli del suo mondo angosciante e tenebroso.