La storia di questo mese, andrebbe accorpata al filone più classico del paradigma sclaviano. Quel ‘i mostri siamo noi‘ che ha fatto la fortuna della serie sin dai suoi albori. solo che in questo specifico caso non esiste una alternanza, una linea di demarcazione seppure complessa tra noi e loro.
E trovarsi in un albo di Dylan Dog totalmente scevro di elementi sovrannaturali è effettivamente spiazzante. Si svogliano pagine studiando le reazioni dei personaggi, anche secondari, pensando che da un momento all’altro, fosse anche alla pagina finale, ci sarà quel colpo di scena in grado di ribaltare il punto di vista.
Ma non succede. È un Godot che non ha la minima intenzione di farsi vedere, lasciando invece spazio ad una struttura solida della storia dove l’elemento umano e quello orrorifico coincidono con estrema precisione. Certo, direte voi, parte della fiction americana a tema orrorifico è basato su una struttura squisitamente umana. Non a caso sin dalla pagina del curatore, viene fatta menzione di slasher come Non aprite quella porta.
Ma qui, ed è la forza della storia, ci si spinge in maniera spinta nella direzione dell’introspezione. Il mostro, o meglio, la famiglia di mostri, ci viene mostrata quasi senza filtri. Una famiglia, vincolata da legami morbosi, terrorizzata dalla vita, si chiude nella propria abitazione. Siamo dalle parti di Dogtooth, quanto a necessità di dissezionare in modo morboso una realtà malata.
Quel che resta della famiglia, madre, e due figli, vive tra sacchi della spazzatura in un costante stato di alienamento. Limitano i contatti con l’esterno conducendo un’esistenza al limite. Fino a quando non viene coinvolta Mara, nuova fiamma del nostro, intenta a sostituire un medico in vacanza. Si accorge dalle visite a domicilio che qualcosa non va, ma quando succede, è troppo tardi. Il figlio maggiore ha già deciso che la donna dovrà rimanere prigioniera di quella famiglia ed assistere la sorella malata. Inconsapevole, o forse decisamente consapevole, che la spirale autodistruttiva si è definitivamente innescata.
Giulio Antonio Gualtieri ci spinge in questa profonda analisi, lasciandoci intravedere, senza mostrare mai, quanto la realtà sia malata e fondamentalmente alienante. Quante volte ci sentiamo di non farne davvero parte e ci sembra che tutto sia un terribile gioco bislacco? La sua analisi è profondamente cruda e con scarsissimo spazio per uno spiraglio di luce.
La sceneggiatura, costruita su una storia in due piani temporali, è costruita su un altissimo tasso ansiogeno e la sola cosa che stona, come vi dicevo, è l’immaginarsi che trattandosi di Dylan Dog, ci si aspetterebbe qualcosa di più sovrannaturale. Al contrario tutta la tensione è fortemente amplificata dalla violenza psicologica che si percepisce ad ogni tavola.
In questo, molto è merito di Luca Raimondo, che distribuisce delle tavole cariche di grigi, progettate come fosse un vecchio film proiettato nel tubo catodico. ogni dettagli, ogni espressione del volto, ogni sforzo di tensione viene rappresentato nella sua pienezza, costruendo personaggi che sono complessi e profondamente umani. Anzi, forse a volte il tratto è eccessivamente pulito, ma nel complesso funziona con una regia perfettamente cronometrata.
Si tratta di una storia atipica, forse complessa, o forse troppo lontana dagli stilemi di Dylan, ma proprio per quello, un doppio salto quantico per testare un Dylan che, fedele agli schemi non è davvero stato mai.