Bisogna andarci piano a sfidare la ritualità. Soprattutto se si ha a che fare con un pubblico severo ed ortodosso come quello di Dylan Dog certamente è. Ragione per cui, far saltare l’annuale appuntamento col Pianeta dei Morti ad Alessandro Bilotta rappresenta già di per sé una nota particolarmente urgente.
Soprattutto dopo la spettacolare storia dello scorso anno con un Gerasi in forma decisamente strepitosa.
Questo progetto Hicks invece segna un passo differente. Basta leggere sui social quello che il curatore di Dylan ha scritto, e poi lasciato intendere. Dopo anni di cambiamenti, continuità, cellulari e paternità improvvise, Tiziano Sclavi ha deciso di voler riportare la sua creatura in una direzione più consona al suo progetto, ritornando di fatto alla non-continuity pre-Recchioni.
Da qui il progetto di quattro storie, due di Barbara Baraldi ed una dello stesso Recchioni che ci terranno compagnia a breve sulla serie regolare. Anticipate però da un prequel, appunto quello di cui volete sentir parlare se state leggendo questa recensione.
Diciamo che, in generale, la percezione che ne ho tratta è quella di un progetto messo in pista forse con maggiore urgenza di quella prevista originariamente. La storia, essendo sostanzialmente un prequel, non permette valutazioni a tutto tondo. L’estro di Bilotta rimane comunque il medesimo. Costruisce un’architettura capace di sorreggere un gioco mentale di scatole cinesi dove la differenza tra reale ed immaginario è terribilmente rarefatta. In realtà, data la complessità dell’intreccio il rischio principale è quello di arrivare a conclusioni affrettate. Ma la netta sensazione almeno fino a questo punto, è quella di trovarsi di fronte ad una nuova riscrittura del dualismo Dylan/Xabaras in una chiave squisitamente inedita.
Forse sono di parte, ma sin dal titolo si citano i comic americani. E, in fondo l’intera trama di questo primo volume mi ricorda il lavoro della scrittrice Claire North da cui Jonathan Hickman ha tratto forte ispirazione per il suo ciclo degli X-Men. La rinascita come sistema per studiare il futuro, trasferendo nel corpo del proprio io futuro tutto il sapere accumulato nella vita precedente. Si tratterebbe di una variazione sul tema, per questo più affascinante, tenendo conto che il primo ed unico stereotipo che le parti successive dovranno accuratamente evitare, è quello di scivolare nel cliché di una ennesima saga del clone.
In questo contesto di angosciante e teatrale ripetizione, Nicola Mari interviene con un tratto lievemente aggiornato, appena più tondeggiante. Servito apposta per fornire delle similitudini tra i vari personaggi che, sono sicuro, all’occorrenza potranno fungere da aringhe rosse ma che, al momento lasciano intendere alcune inquietanti verità. Il suo design è quanto mai evocativo ed angoscioso, presentando un equilibrio tra bianchi e tinte nere quasi violente in alcune sequenze.
In generale l’idea di un soft reboot mi spaventa un po’ anche perché non è passato così tanto dal ciclo della meteora e, in effetti, è già da qualche tempo che il Dylan e l’Old Boy presentano storie che potrebbero serenamente inserirsi nello stesso contesto.
Quali potranno essere i cambiamenti in arrivo? Cosa succederà davvero negli uffici di via Buonarroti? Non ci è dato saperlo, o capire quanto politica sarà la scelta che traghetterà Dylan nei prossimi anni.
Ma in un certo modo, non sono così convinto che si vuole cambiare tutto perché niente cambi. Non questa volta almeno.