Voglio iniziare a parlarvi di questo albo tirando subito in ballo le cose che non apprezzo. Sono entrambe nell’introduzione. Rivolgersi ai lettori chiamandole amebe non la trovo una mossa felice. Certo, capisco l’intento, usare un termine orrorifico, che magari strizzi l’occhio al gore anni ’90. Ma le amebe rimangono organismi non pensanti. E stiamo già camminando sul ghiaccio sottile.
La seconda cosa è citare i Metallica, sin dal titolo. Quello, poi vedremo, è del tutto ininfluente per la storia, o meglio, si sarebbero potuti scegliere molti altri titoli funzionanti in egual misura, se non meglio. Ma resta il fatto che si citano i Metallica pochi mesi dopo che Stranger Things ha sdoganato il gruppo nel pop, associandolo ad un contesto horror di forte impatto.
Volevo parlarvi delle cose che non funzionano subito, perché il resto dell’albo è una assoluta meraviglia!
Diego Cajelli e Corrado Roi confezionano una storia che riesce ad essere al contempo moderna e perfetta per un pubblico più giovane ma che coglie alla perfezione alcuni elementi del Dylan sclaviano. L’ironia, garbata, la violenza, efferata, donne nude, piacevoli siparietti di satira pacata incapsulati nel contesto di una storia che funziona come un piacevole meccanismo ad orologeria.
Cajelli farcisce la storia di mille elementi divergenti, portandoli a convivere in un solo contesto narrativo. C’è la bella e svampita modella, che vede fantasmi nelle lampadine accese di casa. Il neo divorziato depresso ed il direttore del museo psicopatico. E c’è l’indiano condannato alla sedia elettrica quasi un secolo prima. Riuscire a coniugare tutti questi aspetti in una storia che sia compiuta, che riesca, per di più, a trasmetter emozioni è qualcosa che riesce solamente a chi conosce la psicologia dell’inquilino di Craven Road in profondità. Si legge tanto Sclavi in queste pagine e non è un caso, visto che le voci, ma anche gli annunci, lo danno sempre più presente alla cabina di regia.
Non ho bisogno di parlarvi bene di Corrado Roi. Ogni sua tavola, resa in quel contesto quasi nebbioso che ne dona una atmosfera squisitamente onirica, si spiega perfettamente da sé. In questo numero fa gli straordinari. Non è solo una questione di stile. Come ogni autore, Roi si è spinto vero la sintesi, ma, in questo numero si produce in qualcosa che esaspera i dettagli (le rughe di espressione nelle donne, un suo tratto distintivo come le fossette di John Byrne, tanto per intenderci) riempendo la tavola di connettori emozionali. Attenzione, non è un passo indietro, al contrario è una pienezza consapevole e matura.
Questa è una storia che andrebbe annoverata tra le migliori dell’annata, se non della decade. La cosa interessante è che, pur nella sua modernità, questo episodio ammicca al Dylan che fu, a quello status del personaggio che la nuova continuity avrebbe dovuto completamente rimuovere. Il Dylan che incontriamo qui è un dandy un po’ svampito. Ammette di non credere completamente al sovrannaturale salvo poi confermare che le sue avventure passate lo hanno fatto ricredere più volte.
Se dovessi per un attimo soffermarmi ad un’analisi metatestuale, direi che si tratta di una storia con una forte affermazione di matrice sclaviana. Un episodio che assume quasi il valore di statement politico nel definire, o, meglio, nel ridefinire, quali devono essere le connotazioni principali dell’investigatore dell’incubo.
Sarebbe il caso di dire, Dylan è non-morto, viva Dylan. O, qualcosa del genere.