Il numero dopo il reboot. Quel momento dove la marea dovrebbe essersi placata e finalmente si potrebbe tornare a vedere l’orizzonte.
E visto che si parla di cambiamenti, cominciare a percepire il nuovo mondo e vedere cosa succede. Al contrario non è proprio così. La storia di questo episodio, che vede protagonista Dylan solo in maniera marginale, al contrario ha come principale stella una comunità sperduta. Di quelle da leggenda metropolitana.
Solo che in questo caso si invertono i fattori del topos. Se normalmente la comunità rurale viene connessa a riti pagani ed agresti, fino a prendere un’inattesa piega degli eventi che però rimanda ad un passato mai troppo remoto (da the wicked man fino al recente Midsommar), in questo caso la comunità rappresenta una perfetta reliquia degli anni ’80.
Una città della scienza isolata, che potrebbe fare la eco a quelle sovietiche, sempre materia di leggenda. Costruita per funzionare con l’energia atomica, barricata e protetta da una foresta, dove una comunità, nata del segreto voluto dal governo, mantiene un’esistenza distinta e separata da quella placida della mondanità. Solo che poi succede qualcosa, le troppe domande dei complottisti forse, o forse la necessità di qualcuno troppo potente di scucirsi le labbra. Fatto sta che la città resta svuotata se non per poche anime che, nella torre di raffreddamento del reattore, vedono una sorta di grembo materno. Al punto da ustionarsi con la neve chimica e perdere la vista. Tutti nella comunità raggiungono l’età adulta in questo modo, e quando Dylan vi si imbatte, per un caso completamente fortuito, si trova ad essere prigioniero di una realtà che in questo caso difficilmente riuscirà a dipanare.
Il Dylan che incrociamo questa volta, scritto da Gabriella Contu, è slegato da ogni forma di continuità. Non ci viene detto nulla del suo lavoro e quando nelle ultimi pagine dell’albo compare uno dei comprimari più classici, si fa fatica ad indovinarne il legame. Se siamo ancora pre, post o avanmeteora insomma.
La linea narrativa che sviluppa la trama è solida e quanto mai lineare. Sebbene l’episodio si poggi su degli stilemi narrativi ben codificati, l’intreccio si prende il merito di invertirne i fattori, generando una differenza notevole.
Le tavole di Giorgio Santucci sono crude, quasi essenziali in un duetto costante tra bianchi e neri dove gli estremi sembrano essere la naturale linea d’essere. Il suo tratto sembra riflettere la brutalità della storia, senza poter offrire nessun appiglio ne forma di quiete.
Nel complesso si tratta di una storia estremamente interlocutoria, di quello che lasciano intendere che forse si è voluto prendere tempo. La sensazione, in effetti, rimane nettissima come nei tre albi precedenti. Si, è accaduto qualcosa, ma con meno programmazione rispetto a quella che avrebbe dovuto richiedere. E nel mentre che si decide la direzione principale in cui far evolvere la trama principale, nel mentre si guadagna spazio di manovra.
Lasciando tutti noi a farsi abissali domande.