Questo episodio dell’Indagatore si inserisce nel periodo di transizione che la testata sta attraversando. Non è un caso che nell’introduzione a prendere la parola sia lo stesso Tiziano Sclavi, che prende commiato dal magister Recchioni ed apre le porta alla nuova curatrice, Barbara Baraldi (l’ho intervista in proposito pochi giorni fa : trovate tutto qui). Del nuovo corso, si comincerà ad intravedere già qualcosa nelle prossime settimane ma, ufficialmente partirà tutto da ottobre. Con Lucca, insomma.
A rigor di logica quindi questi prossimi episodi dovrebbero trovarsi in una terra di nessuno e rimanere sprovvisti di una vera e propria paternità. Per fortuna, non è proprio così. Questa storia, di Mignacco e Caretta, seppure dal retrogusto un po’ retrò ha però soltanto una pecca strutturale.
Togliamoci subito il dente. È davvero troppe volte di fila che Dylan si perde in macchina, ha un problema con la macchina, e si sveglia in ospedale con problemi di memoria. Comprendo che possa essere un meccanismo letterario, ma il senso di dejà vu, ammesso che non sia voluto, è davvero importante.
Ecco fatto. Tolto questo aspetto, la struttura della storia è squisitamente weird. E anzi, il richiamo ai vecchi fumetti di Bernie Wrightston è davvero palpabile. La storia gioca con il topoi del non morto smarrito in un cimitero per srotolare una complessa faccenda familiare che rende il titolo dell’episodio, tra i più rivelatori possibili.
Quello cui assistiamo è un curioso mystery case dove è la stessa vittima che percorre a ritroso le sue ultime ore per scoprire chi davvero piangeva al suo funerale con un cuore sincero e chi, tragicamente no.
Come spesso accade, Dylan è quasi un passeggero, un tetro accompagnatore della vittima, messo sugli stessi binari con lo scopo di guidarlo, o forse di far luce.
Il finale contiene un plot twist che fa quasi sobbalzare sulla poltrona. La sospensione dell’incredulità è messa a dura prova, ma, in realtà, la sottile ironia su cui è giocata tutta la faccenda, la rende perfettamente credibile e assolutamente spassosa. Mignacco gesti alla perfezione i vari colpi di scena e usa dei dialoghi effervescenti che non lasciano spazio per una disperazione pura, quanto ad un divertito sbigottimento.
Caretta utilizza un character design che ricorda quello di Arthur Adams, in certa misura. I contorni nebbiosi in cui la faccenda è sviluppata sono costruiti su fondali dettagliati e capienti. Ma è il character design ha rendere articolare questa storia, mostrando un Dylan distaccato eppure emotivamente coinvolto.
Forse i contorni di questa storia assumono troppo la struttura classica di un racconto horror. Siamo lontani dalle atmosfere pop moderniste, o dall’analisi approfondita dei mostri social(i).
Ma solo per questo, proprio per questo, si tratta di una ventata di aria fresca. Che fa sperare per il meglio nel prossimo futuro.