Nella nuova serie dei Transformers, pubblicata sotto l’egida di Robert Kirkman la capacità di storyteller di Daniel Warren Johnson emerge in tutta la sua possanza. I transformers sono da decani una dellle icone transmediali più acclamate, fumetti, cinema, action figure. Ma il lavoro di Johnson porta tutto ad un altro livello.
Daniel Warren Johnson è un guastatore (leggete anche qui per credere). Prende le idee e le spinge in avanti a velocità ipercinetica con il risultato di rendere sempre incerto dove si andrà a parare. Per dirne, Wonder Woman di Terra Morta che utilizza la spina dorsale di Clark Kent come arma al posto del lazo.
Nel suo eclettismo Johnson mescola stili apparentemente differenti tra loro componendoli in una miscela perfettamente globalizzata. Introspezione europea, design nipponici e personaggi americani convivono nelle stesse pagine in una perfetta rinascita del cool.
Walter Simonson quando scriveva Thor aveva la stessa esatta capacità di trasmutare cose in nuove iterazioni. Il suo character e mecha design subisce moltissimo l’influenza di Johji Manabe (per chi se lo ricorda), mangaka da noi pubblicato in maniera poco più che scarsa e, persino in Giappone abbastanza dimenticato. Astronavi automatizzate, donne giunoniche dai folti capelli ricci. Questo è molto altro viene catalizzato da Daniel Warren.
E per questa ragione che la scelta di dirigere una sua serie dei Transformers non potrebbe essere che azzeccata. I robottoni della Hasbro sono stati il mio primo fumetto Marvel, per cui non si inquinino i fatti, sono un loro fan. Anche se poi negli anni li ho seguiti sempre più a distanza relegando le loro serie al mercato degli young adult. Una continuity basata si narrazioni tutte le volte sovrapposte non ha certo contribuito a migliorare le cose per carità.
Ma come fare a non dare un’occhiata a questo nuovo titolo, se non altro per giocarmi la carta nostalgia?
E di nostalgia, qualcosa si sente, basta vedere l’Arca seppellita sotto una montagna. Il character design dei nostri è poi uguale a quello delle prime versioni anni ’80. E non potrebbe essere differentemente. Lo stile di Daniel Warren Johnson ne garantisce una forma molto più umanizzata. Quel suo tracciare le linee quasi a mano libera ed una presenza massiva di ammaccamenti e vetri scheggiati fa salire il numero di ottani ad un livello esplosivo. I personaggi umani, nella loro natura fallibile, sono imperfetti, violenti, astiosi, in generale molto lontani dallo stereotipo bidimensionale a cui eravamo abituati.
Le vicende narrate sono poi abbastanza fedeli all’originale da ricordarcelo, ma con qualche impianto più moderno che ne permette una rilettura lucida e dinamica. La cosa bella, in ambito sceneggiatura è che questi personaggi riescono ad essere e, contemporaneamente, non essere quelli che popolano i nostri ricordi.
La cosa più bella che accade è percepirne la cattiveria. Optimus Prime nel primo numero schiaccia un cervo, semplicemente perché non lo vede. Starscream, dopo un dogfight, strizza tra le mani due piloti che provano a salvarsi col paracadute. Forse per la prima volta, percepiamo la differenza di scala, e di massa, tra umani e robot e l’inevitabile scontro culturale.
La sola cosa che mi preoccupa, personalmente, è quanto un cartoonist così unico, possa tenere testa ad un’opera seriale. Ogni tanto gira voce di una possibile sostituzione ai disegni, quanto meno per dargli il tempo di prendere fiato e caricare le batterie. Ma ho il sentore che l’unicità devastante di questa serie sia collegata proprio ad avere lui come motore unico di storia e disegni. Mentre il rischio di snaturarlo potrebbe essere molto più forte del previsto.
In ogni caso c’è molto in più in questi primi numeri, di quello che l’occhio percepisce.
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