La misura del mondo rappresenta il testamento spirituale di Carlo Ambrosoli per le vicende di Dylan Dog. In tempi di inclusione a tutti i costi, la storia ci porta le agrodolci note dell’invisibilità e dell’emarginazione.
Carlo Ambrosini ci ha lasciato pochi mesi fa, portandosi dietro un bagaglio di storie profonde e radicate nella tradizione del fumetto popolare. Non è un caso che rappresenti uno di rarissimi casi di autore completo in Italia. Il suo stile grafico, ormai spinto verso i limiti dell’astrattismo e della decostruzione, ci mostra uno scheletro quasi completo di una storia dylaniata. Nel leggere queste pagine mi sono sentito, in qualche maniera, come davanti all’ultima storia inedita di Ken Parker.
Anzi, visto che esiste almeno un’altra storia completa, io gli avrei concesso l’onore di pubblicarle assieme in un volume speciale celebrativo. E chissà che non sia una cosa che possa accadere davvero, ad un certo punto.
Quello che emerge dalla misura del mondo, è una storia con Dylan testimone, coinvolto casualmente. Una storia di emarginazione, di amore e morte. E Dylan, che sempre è stato dalla parte dei mostri, in questo caso, pur schierandosi con loro, quasi lo uccide.
Un uomo ed un ragazzo, entrambi affetti dalla sindrome di Llliput, una sorta di nanismo armonico, scompaiono nelle profondità della città di Londra. Sullo sfondo una brutta vicenda di povertà e di brutalità. Ma bisogna stare attenti alle sfumature per comprenderne ogni aspetto.
Devo essere onesto, nel personaggio di Slim Cornwell ci ho rivisto qualcosa di quella vecchia canzone di Fabrizio de Andrè. Quanto meno nella misura in cui la sua misantropia si rivela senza pietà o morale.
La poetica di Ambrosini, legata all’amore delle tradizioni culturali e letterarie, compare coprendo note di contrappunto ma non solo. Tutta la storia è un continuo parallelismo con i viaggi di Gulliver, visti da una prospettiva ribaltata. Il piccolo Donald percepisce il mondo come popolato da giganti deformi, mentre al contrario, Slim è animato dal desiderio di un ritorno alla sua metaforica Lilliput.
Ad aleggiare sin dalle prime tavole, che ci raccontano una Londra post guerra mondiale grigia e deprivata di tutti i valori morali, la figura di Arlecchino, che per Ambrosoli ha sempre avuto la valenza della Triste Mietitrice.
Tutte queste suggestioni si fondono ne La misura del mondo, dove Dylan Dog è protagonista di una storia dalla chiarissima matrice weird e, attraverso un finale volutamente psichedelico, si trova coinvolto nella ricerca di un bambino e nella caccia di un uomo che, pur avendo miti fattezze e modi gentili per tutta la sua esistenza, si è reso capace di efferati atti. Che, senza rendersi conto, ha iniziato a pagare prima che la storia sia ancora iniziata.