L’uscita de Il Fuoco per Tunué è una conferma. Da molto tempo David Rubin è un autore di punta della casa editrice. E questo volume in grande formato non fa che confermare le aspettative.
Il volume, nella sua catastrofica profondità, rappresenta uno spaccato funzionale dei nostri tempi. Rubìn ci racconta gli ultimi giorni dell’umanità e di Alexander Yorba, un famosissimo architetto.
Il mondo è in rotta di collisione con un asteroide che porterà alla fine della razza umana. Yorba è incaricato dal governo unificato di costruire un rifugio sulla luna che possa salvare quanto meno l’elite del pianeta. Yorba è ambizioso e non smette mai di lavorare, è un uomo di successo e vuole lasciare una firma indelebile del suo passaggio.
Ovviamente, in tutto questo, il mondo va a rotoli. I governi non reggono l’impatto di chi resta in dietro, le città vengono distrutte. Mancano pochi mesi quando la vita di Alexander prende una svolta inaspettata. Gli viene infatti un tumore al cervello inoperabile che gli garantisce esattamente lo stesso periodo di vita del pianeta.
E qui, andrebbe considerata la prima chiave di lettura. Alexander è affetto da superomismo. Nella sua pienezza di sé, quasi Nietzschiana, la percezione che la fine del mondo e quella della sua esistenza coincidano, serve a fargli riconsiderare la sua stessa esistenza.
Convinto che non potrà sopravvivere per vedere i benefici del suo lavoro, manda tutto all’aria e cerca di ritornare un’ultima volta da moglie e figlia per professargli il loro vero amore. Non è stato un buon padre di famiglia, non ne ha mai davvero avuto il tempo o l’interesse. Per quelli della sua pasta, i traguardi importanti, quelli assolutamente da raggiungere, sono di fatto quelli irraggiungibili.
È in questo sottotesto che si insinua il concetto del fuoco, come passione interna che sgorga e brucia tutto quello che c’è attorno.
Nel suo viaggio a ritroso, Yorba scopre che l’essere così focalizzato su se stesso ha contribuito a generare una sua immagine completamente distorta. Non è stato il padre ed il marito che credeva di essere, ha tenuto lontani amici ed amanti, di tutto quello che contava davvero, non è riuscito a fare nulla. E alla fine, neppure la sua grande opera, la realizzazione del rifugio per l’umanità, sembra essergli riuscita.
Quello di Yorba è un bilancio, un bilancio che tocca a tutti al termine dell’esistenza e che il suo egotico atteggiamento identifica niente meno che con la fine del mondo.
Rubìn è bravissimo a tratteggiare un monito che è spaventosamente perfetto per i tempi che corrono.
Le sue tavole, colorate passionalmente, sono di una violenza grafica esasperante. Il contrappunto tra il disastro che sta accadendo, ed il cervello rettile che ha sempre motivato il protagonista è quasi palpabile. Le sue prospettive piane, quasi illusorie trasmettono una calma che non potrebbe esistere da nessuna altra parte. E questo contrappunto genera la tensione che spinge pagina dopo pagina avanti. Fino alla fine.
Il trionfo sono gli ultimi due capitoli. Quando la parabola dell’uomo giunge al termine e ci troviamo di fronte il paradosso tra quello che è e quello che è stato. L’amarezza che traspare, regna sovrana, facendoci prendere fiato.
Il fuoco si placa, e finalmente, dove deve, regna il silenzio.
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