
Non a caso il nostro si definisce investigatore dell’incubo. Dylan Dog da sempre ha attraversato i territori che conducono all’inconscio. Con non dovresti essere qui, si alza ulteriormente l’asticella.

Barbara Baraldi (del suo lavoro vi parlo qui), smette per un mese le vesti di curatrice e torna ad indossare quelle, a tempo pieno di sceneggiatrice, presentando una storia che vi procurerà non pochi malditesta. Non tanto per la sua complessità, quanto per la necessità di poter distinguere tra realtà e piano onirico.
Aree queste, in cui la storia è equamente suddivisa.
Dylan incontra una ragazza. La ragazza le parla di una clinica con trattamenti poco ortodossi. Lei lamenta curiose sensazioni di déjà-vu. Dylan indaga, i due finiscono a letto.

Richiudendoci nel territorio dell’high concept, la trama di non dovresti essere qui potrebbe sintetizzarsi in queste semplici righe. Ma naturalmente si andrebbe a perdere tutto lo spazio delle sfumature che, mai come in questo albo, rappresentano un elemento chiave dell’impianto narrativo.
Nella sottile linea che separa movimenti onirici e realtà sta tutta la bravura della Baraldi che riesce a catturare ed ammaestrare un tipico movimento del cervello, di non semplice comprensione. Credo che tutti siamo in grado di vivere con il giusto grado di sgomento ed inafferrabilità il momento esatto in cui viviamo un déjà-vu.
La scienza esatta potrà averci fornito anche una spiegazione, ma dentro di noi, nello stesso posto dove abita l’atavica paura del buio, ci chiediamo cosa si nasconda in quella sensazione.
Ed in non dovresti essere qui, la Baraldi prova a dare una spiegazione. Spiegazione che leva sulla capacità squisitamente umana di trovare un complotto dove non c’è una spiegazione e focalizzarsi su una eminenza grigia che si adoperi nell’attività di mitigare tutto quello che non torna.

Va detto che questo tipo di ansia sociale, accompagnata all’idea che qualcosa non ci rende perfettamente liberi è una di quelle paranoie sociali che avrebbe avvertito anche Sclavi. Anzi, sarebbe davvero interessante capire cosa direbbe Sclavi di come sarebbe la vita ai tempi dello smart phone.
A completare quest’albo, i disegni di Davide Furnò sono un complesso arabesco sperimentale. La regia è ben calibrata, ma la tecnica usata ricorda da vicino tantissimo fumetto inglese e statunitense degli anni ’80. Le anatomie, i copri nudi e sensuali, starebbero davvero molto bene in un albo di Warrior. O forse in un Color Fest, poiché l’atmosfera è davvero estremamente sperimentale.
Da un certo punto di vista, sia per tematiche che per tratto grafico, sembra quasi di leggere un annual dove si spinge in direzioni più ardite ed eccentriche.

Del resto Davide e Barbara lavorano in una sintonia che è più che evidente. Dopo essersi cimentati assieme in uno dei tre atti dell’omaggio dylaniato a Vasco Rossi, ritrovarsi in una storia che mi ricorda da vicino certe atmosfere claustrofobiche a metà tra V for Vendetta e the Wall è davvero notevole.
Non si tratta di una storia semplice, ma è evidente che entrambi cercavano di sviluppare un concetto che solo assieme sarebbero riusciti a dipanare. Essendo loro, molto di più della somma delle loro parti!
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