Trovo estremamente curioso che Chiaverotti e Dell’Agnol, papà di Mana Cerace gli abbiano dato un alter ego che ha come cognome Crane. Proprio come lo Spaventapasseri, storico avversario di Batman, in grado di generare panico ed allucinazioni attraverso neurotossine. Del resto il Dylan Dog dei tempi che furono funzionava così : una incredibile spugna capace di assorbire dai mille turbinii della cultura pop per poi generare il disagio pensante. Che era quella capacità di far riflettere che gli ha permesso di diventare una vera e propria icona di quegli anni ’90 , decade maledetta che ha messo il grunge e Kurt Cobain davanti al successo epicureo degli immortali anni ’80.
Tanto immortali che sono diventati uno zombie che ci perseguita, svuotato dei principi vitali, ridotto ad un guscio maciullato dove piccole scariche elettriche mandano ancora flash di quello fu. Decostruzionismo all’ennesima potenza. Che poi, ci ricordiamo, è pure uno stile letterario.
Ed è in questa veste decomposta che Mana Cerace, l’uomo nero, torna a far visita a Dylan Dog. Dylan è uno Zeitgeist incarnato ed in questa trilogia segue il Male con gli occhi allucinati di un autostoppista caricato su un veicolo malandato nel cuore della notte e su una strana desolata.
La profondità di Mana Cerace in questa storia viene elaborata nei primi due atti, nel momento in cui prima di lui andiamo a conoscere Philip Crane, ragazzo abbandonato all’oblio da una società non lo accetta e che non vuole fare qualcosa. Morto, ritorna una creatura dell’Ombra e come tale cerca vendetta verso i suoi persecutori.
Ma in questo ultimo albo, dove non c’è spazio per ulteriori approfondimenti, muoviamo i passi verso la chiusura delle scene. E come è noto per ogni trilogia, l’ultima parte deve sovvertire completamente quello che abbiamo saputo fino a quel punto. Così Mana Cerace, creatura d’ombra, convinto di essere solo e abbandonato, trova in Kimberly, sua vecchia fiamma ora in disarmo tutto l’affetto ed il senso di appartenenza che ha sempre cercato. Non ci illudiamo, Kimberly nutre un amore malato e opportunistico. Se si ricorda di Philip è solo perché tra il male e l’oblio si rende conto che il secondo potrebbe rappresentare la via d’uscita più comoda.
Il ritmo da slasher movie, si interrompe solo sull’ultimo dubbio. Quanto Kimberly da viva è corrotta? E quanto Mana Cerace, è davvero il Male incarnato? Il suo percorso va lentamente in frantumi quando si rende conto che forse sarebbe bastato tentare appena un po’ di più. E alla fine, forse, Crane capisce non è tanto il male fatto a noi, ma quello fatto alle persone che amiamo che ci fa uscire per quello che siamo.
In questo twist acrobatico le matite di Dell’Agnol e Cattani si abbandonano ad una maggior presenza scenica dei chiari, dove nei primi due episodi gli scuri avevano dominato la scena. Anche una maggiore presenza delle espressioni facciali sottolinea quanto l’ultimo capitolo sia più introspettivo.
In questo Chiavetotti sa le sue carte migliori, Dylan sembra arrivare sempre un attimo dopo. Chiara dimostrazione che non è ancora l’indagatore dell’incubo che graffia. Ha buone intenzioni ma non riesce davvero ad intervenire. John Ghost in una veste inedita rispetto al pre-meteora assume un ruolo più teatrale. Mentore, amico, quasi carico solo di buone intenzioni. Per il momento non sembra lasciare spazio a piani nascosti e oscure strategie. Al contrario tra Dylan e Ghost rivedo aggiornato una sorta di rapporto come quello con l’ormai defunto lord Wells.
Un ciclo che si chiude con una sequenza che omaggia il Ridley Scott di Blade Runner, con tanti punti interrogativi aperti e molte curiosità.
Soprattutto, se c’era un black-out totale, come diavolo faceva a funzionare la metropolitana ?