Ci sono misteri nel patrimonio fumettistico americano, che dovrebbero rimanere tali. Che fine ha fatto Bucky, chi ha impiantato l’adamantio a Logan, l’origine del Joker. Misteri così capaci di definire i personaggi a cui sono legati che regalarne qualche dettaglio ne svilirebbe la forma.
Lo scrittore che decide di percorrere questa strada si trova davanti due possibilità. Svelare completamente quello che rimane di irrisolto, sperando che la realtà dei fatti sia così eccezionale e ben scritta da sostituire l’alone di mistero, ad esempio. È esattamente quello che Ed Bruebaker fece con il Soldato d’Inverno. Chi diavolo vorrebbe ancora Bucky quando si può avere un assassinio addestrato dai servizi segreti sovietici e poi redento?
Oppure si può svelare qualcosa, creando un nugolo contradditorio di informazioni ad affossare il mistero fino a causare il rischio che nessuno ci capisca più nulla. Per decadi si è raccontato qualcosa su Wolverine senza che si sapesse tutto. Avevamo Arma X, ma era solo un resoconto naturalista dell’operazione di impianto dell’adamantio. Quando poi le Origini vennero svelate completamente, il risultato fu così noioso che per rendere di nuovo vitale Logan, lo si dovette sostituire con una sua versione più vecchia di trent’anni di misteri.
Il che ci porta alla storia di cui voglio parlarvi oggi.
Nel 1988 Alan Moore scrisse quel capolavoro che risponde al nome di Killing Joke. Nasceva come un Elseworld prima che gli Elseworld fossero creati. Ma sarebbe poi stato canonizzato includendo i particolari delle sevizie fatte a Barbara Gordon. Nessuno si lamentò e, il fatto che nella storia venissero raccontate tre origini differenti del Joker era un’indagine sull’animo umano. Come a dire, non importa da dove arrivi, ma quello che sei.
Nessuno si è più sentito di aggiungere altro sulle origini di quello che, a tutti gli effetti, è il villain perfetto. Fino a quando, qualche anno fa, con la nascita del Rebirth si cominciò a vociferare del fatto che di Joker, in giro per l’universo DC, ce ne fossero tre. Ora, non voglio esagerare. Ma la cosa fu per me, stravolgente. Avere tre versioni dello stesso personaggio spiegava qualcosa sulla loro schizofrenia, ma non indagava sul mistero. Sulla ragione perché la natura avesse voluto tre come loro, con simili intenti ma percorsi diversi.
Ma la promessa che si sarebbe indagato mi tenne incollato alla poltrona. Ripeto, certi misteri è meglio non svelarli, ma se si svelano, che sia rivelato tutto, ed in maniera eccezionale.
Con questa attitudine mi sono affacciato al volume che raccoglie i tre albi prestige della black label. Si tratta del volume appena uscito in America, poiché al momento in cui scrivo, la storia è ancora in fase di pubblicazione a puntate in Italia.
Il fatto che, all’uscita degli albi, la cosa che aveva fatto parlare più di tutto fosse l’eccezionale quantità di variant cover, un po’ mi aveva lasciato dubitare. Se davanti a quella che dovrebbe essere la storia del decennio, la DC comics si preoccupava solamente del valore collezionistico, un po’ di puzza di bruciato, c’era.
Poi c’è la questione Geoff Johns. Johns, ha scritto alcune tra le migliori pagine dell’universo DC degli anni zero. Dietro la ridefinizione del mito di Superman, della JSA, di Flash, del Coraggioso e dell’Audace c’è sempre stato lui. Poi, non so quanto abbia preso bene il reboot del new 52 e, l’averlo spostato alla divisione televisiva non ha certo contribuito a tenerlo concentrato sullo storytelling cartaceo.
Fatto sta, che pur essendo Doomsday Clock un gran bel libro, è ormai scollato dalla continuità regolare DC. E non si può ignorare che, quanto a stile di scrittura, Geoff Johns cerchi di mantenere un’uniformità stilistica il più prossima possibile a quella dell’Alan Moore di Watchmen. Senza mantenere però, un briciolo della sua disillusione o del suo cattivo umore.
E con Three Jokers, siamo allo stesso. Idealmente è un seguito di quel Killing Joke scritto nel 1988. E lo stile, l’ingabbiatura della tavola a nove riquadri, la regia lenta ma pedissequa è propria di quei toni. Johns ad un certo punto deve essere diventato il ghost writer di Moore e racconta il proseguo di quella storia dove l’origine del Joker veniva raccontata in tre modi differenti.
Solo che quello che era un pretesto metafisico viene ora interpretato in maniera naturalistica: e se le tre origini fossero state raccontate perché in realtà di Joker ce ne sono sempre stati tre?
La trama segue i i topoi del noir : Cappuccio Rosso e Batgirl aiutano Batman in un caso che lascia intendere, per la prima volta, la possibilità che di Joker ce ne sia più di uno. È chiaro l’intento di affiancare Jason Todd e Barbara Gordon, entrambi oscenamente danneggiati dal Joker. Entrambi con una ferita da risanare. Ci sono degli spunti inziali raccontati sotto la luce giusta. Le tavole di Jason Fabook del resto si prestano alla stessa investigazione realistica di quelle di Brian Bolland.
E l’alchimia che si va a creare tra Jason e Barbara è morbosa, ma non si può fare a meno di stare a guardare. Che Jason Todd sia una replica di Dick Grayson al punto da innamorarsi perfino della stessa donna ha degli spunti freudiani vivissimi. Il problema con l’evoluzione di questa sottotrama è dovervi rivelare abbastanza, senza raccontarvi la storia.
Vi basti questo : il dilemma morale che si pongono ad un certo punto i protagonisti, ha degli aspetti legali estremamente selettivi : mi spiego, sperando di non sembrare del tutto oscuro. Una azione che compie Jason in principio di scena, causa zero conseguenze nelle persone che gli sono accanto. La stessa azione, ripetuta sul Joker è causa di turbamenti e caos morale.
Ma fin qui ci stiamo occupando solo della componente naturalistica della storia. La Bat family che si occupa del mistero sui tre Joker. Quello che manca è il compimento metafisico. A nessuno, in nessun punto della storia, viene da chiedersi come sia possibile che ce ne siano tre. Nessuno ne spiega il motivo, neppure con un artificio di meta scrittura.
Per cui, alla fine mi chiedo, perché scrivere una storia su un mistero insondabile, senza risolverlo, e senza aggiungere nulla di sostanzialmente importante?
È come se Johns avesse voluto lasciare incompiuta la risoluzione, non riuscendo a raggiungere l’interpretazione psicotica di Moore. C’è un finale, dopo la chiusura della faccenda, che lascia spazio a degli elementi in più. La mossa del cavaliere, che era stata fatta ad inizio partita ma che nessuno aveva ancora notato.
Che rivoluziona il gioco, ma non in maniera sostanziale.
Tutto è sotto l’egida della black label, graficamente impeccabile, stilisticamente perfetta, metafisicamente dubbiosa.
Resta sempre il dubbio se sarà mai canonica o se diventerà parte di qualcos’altro ancora in divenire. La sola certezza, è che rimane una bella storia investigativa, senza riuscire a dare quella zampata emotiva in più.