Il Noir all’americana, di quelli girati in una Los Angeles tentacolare, pietre miliari come luci al neon. Locali di spogliarello e diner malandati.
È una tradizione che qualcosa del genere possa emergere da un terreno così carico di humus. Certo le suggestioni da Grand Theft Auto sono tutte là, disperse nelle numerose scene di guida con la telecamera che riprende leggermente dall’alto. E se ancora non vi basta, andate a recuperarvi su Netflix la docuserie sul Cecil Hotel di L.A. , per avere un’idea un po’ più precisa.
Per infondere di credibilità questa storia, e allo stesso tempo alleggerirla da un eccesso di analisi scientifica (che avrebbe portato alcuni elementi della trama ad una risoluzione più rapida e divergente) John Lee Hancock, che la scrive e la dirige, la ambienta in una L.A. dei primi anni ’90, lontana dai disordini razziali ed inserita in un contesto dove, forse, l’effetto nostalgia permeato dagli intramontabili anni ’80 già arriva.
Denzel Washington è un vice sceriffo di una contea al nord che deve fare ritorno in città per una deposizione su un caso locale. Appena arriva scopriamo del suo passato di detective della omicidi. Passato che né lui, né molti degli altri ex colleghi hanno troppo voglia di rivangare e che anzi guardano persino con ostilità. Tra questi c’è anche un novellino, che ha preso proprio il suo ruolo, (anche nella grazie del capo) e che, tra abiti costosi e aria da saputello, tende a marcare sin da subito il suo territorio. Rami Malek ha la faccia giusta per rappresentare l’integerrimo Jim Baxter, coinvolto in un caso di un serial killer che rapisce e poi uccide giovani ragazze. Per John Deacon, le ore da passare a L.A. sono comunque troppe, ma il caso lo riporta ad un angolo buio del suo passato, con un magnetismo così forte da convincerlo a prendersi una settimana di ferie e rimanere in città. I due uomini hanno quasi nulla in comune, a parte una luce fioca e deviata, che potrebbe indicare al giovane, la strada che si deve percorrere per finire soli e malandati come è accaduto al vecchio. Nel mentre la narrazione ci spinge nei meandri malati di questo killer con un modus operandi che riporta Deacon a rivivere un passato traumatico da cui non si è più ripreso.
Non si tratta di un rapporto allievo/maestro, è più una comunione di intenti, ma il rapporto che si stabilisce tra i due è subito intenso. Anzi, lo svolgere della storia permette di analizzare più a fondo la psiche umana nel momento in cui si stabilisce un rapporto di responsabilità tra vittima e poliziotto. Un debito morale che se non si riesce a saldare finisce per condurre all’autodistruzione, come è successo a John Deacon, divorziato (l’incontro con la ex moglie è straziante) , ammalato, costretto a condurre un lavoro che è un surrogato del suo mentre le notti finiscono lunghe e probabilmente insonni in una veccia baracca dispersa nel nulla.
La trama conduce ad un sospetto, un Jared Leto intensissimo nel ruolo del disadattato intelligentissimo e bordeline. E qui la storia insinua il dubbio più atroce. Albert Sparma è colpevole, perché la sua morale è dubbia e l’identikit combacia con quello del killer o è solo una serie di coincidenze che lo mettono sulla loro strada?
Lo sviluppo della trama dei due personaggi in questo contesto è disarmante. I due poliziotti si convincono pian piano di avere tra le mani l’uomo giusto. Il coinvolgimento emotivo è tale che anche lo spettatore è condotto a seguire delle aringhe rosse. Nel mentre, come suggerisce il titolo originale, bisogna prestare attenzione alle piccole cose, allo schema nello schema che potrebbe raccontare una verità differente dove il confine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è diventa terribilmente labile.
John Hancock confeziona un thriller caldo e umido dalla fotografia impeccabile ed una forte componente notturna. Già solo la scena iniziale meriterebbe il prezzo del biglietto, se ci fosse ancora un prezzo da pagare per vederlo al cinema. Il ritmo è funzionale e segue un crescendo che non lascia spazio a tempi morti. Le scenografie collezionano scorci indimenticabili e la storia è talmente profonda da lasciare il desiderio di volerne sapere di più.
Sul finale viene gettata un’ombra tetra. Mentre siamo contenti di quello che accade ai protagonisti, perché è a loro che siamo legati, in realtà la risoluzione psicologica ci restituisce due psiche danneggiate che si spingono oltre un limite rimarcato. E che proprio alla luce di quei tumulti razziali del ’92, ma anche di tutto quello che accadde dopo e accade ancora oggi, spaventa.
Perché non ci sono angeli a custodire i custodi.