Visto i mesi che abbiamo passato (e lasciamo perdere le considerazioni sull’esserne già fuori o no), qualsiasi discorso su una storia intitolata Bacteria potrebbe essere fuorviante. Ci si potrebbe soffermare sulla semplice considerazione che una pandemia ti cambia il modo di percepire la vita. Cambia le attenzioni che devi prestare alla vita di tutti i giorni e, infine ti lascia disarmato di fatto alla considerazione che la vita che conducevi prima, per quanto noiosa o complicata, potrebbe non tornare più.
È un tipo di argomento che nei vari dialoghi con gli autori, inclusa Paola Barbato, co-autrice di questa storia, in questi ultimi mesi è emerso. Quando arriverà il Covid nel subconscio degli scrittori, quando ne parleranno con cognizione di causa?
Non c’è una risposta semplice, forse mai, o forse lo stanno già facendo. Ma Bacteria non è una storia sul Covid. Anagraficamente nasce pure prima. Ma non prima che la paura, del tutto umana, che qualcosa di fuori controllo possa arrivare e distruggere quello che per convenzione ci intestardiamo a chiamare civiltà.
Nel mondo di Bacteria, di civiltà ne esistono addirittura cinque, tutte evolute direttamente da quella che viviamo noi. Gli autori non spiegano cosa sia successo. Presumibilmente cataclismi, o forse guerre, magari entrambe. Quello che conta è che quattro di queste civiltà sono imbastardite, soffrono la contaminazione del territorio e vivono la maledizione di una eredità troppo pesante. La quinta, la più centrale, quella maledizione l’ha proprio assorbita. Seppure meno avanzata tecnologicamente di altre, è una civiltà che mantiene l’odio ed il desiderio di prevaricazione. Ed infatti il presupposto narrativo è proprio quello di un gruppo di scienziati che è disposto a sacrificare le poche risorse che potrebbero essere necessarie a ripopolare il pianeta solo con lo scopo di creare quattro portatori sani di virus pandemici da liberare negli altri territori e svuotarli, in modo da poterli conquistare. Ed espandersi.
Spazio vitale per sopravvivere, conosciamo la storia, giusto ?
Così questi quattro ragazzi vengono fatti crescere in perfetto isolamento, in camere con pareti a vetro dove ognuno può vedere gli altri, senza contatti se non quelli con i medici in tuta anticontaminazione che ogni tanto passano. Il piano è semplice, liberarli in contemporanea e far loro raggiungere i centri nevralgici delle altre civilizzazioni. Farli sopravvivere quel tanto che possa bastare ad infettare più gente possibile.
Per fare tutto questo la loro psiche viene condizionata, dando ad ognuno la motivazione psicologica necessaria. E se la freddezza con cui l’apparato scientifico sembra muoversi senza nascondere il piacere quasi sadico di dissezionare in modo così dettagliato la vita altrui, un elemento in gioco non viene preso nella giusta considerazione.
Se ci fosse il professore Ian Malcom, parleremo del caos che trova sempre una via. Io mi limito più mestamente a sottolineare che anche in tragedie così immani, l’elemento umano è quello che può portare ad una differente spinta, ad una scelta coraggiosa, o forse incosciente, ma necessaria. Quanto meno a ricordarci che abbiamo ancora un cuore.
Per cui non starò a raccontarvi questo elemento come viene giocato, ma mi limito a sottolineare che viene fatto molto bene e che i risvolti narrativi che approfondiscono la questione sono strutturati portando il meccanismo narrativo a perfetto chiusura. Paola Barbato e Matteo Bussola svolgono un lavoro eccellente da applausi a scene aperta per una storia che potrebbe benissimo diventare una serie di Netflix.
Graficamente Emilio Pilliu, con un tratto che richiama a gran voce l’oriente, contribuisce a creare una ambientazione fresca e densamente colorata. Il registro si adatta alla perfezione ad un pubblico anagraficamente variegato, e la regia è affidata ad un character design affascinante ed una scenografia che non lesina dettagli.
La storia si legge tutta d’un fiato, lasciando un senso di amaro che la rende terribilmente necessaria. Ci sono mille elementi molto forti che sfrecciano su più livelli.
Ma la prova definitiva è che in casa, l’ho letta io, e mia figlia Rachele, anni 10. Ed entrambi l’abbiamo apprezzata e ne ricordiamo i dettagli e gli snodi narrativi.