Alessandro Bilotta ci spinge a riflettere, e lo fa sempre, anche quando non vorremmo perché ci manca la struttura mentale o rifiutiamo l’argomento con tutte le nostre forze. E lo stesso è per il Dylan che troviamo in questo secondo arco narrativo del Pianeta dei Morti (del primo, ne parlo qui). Stanco, colpevole di aver causato la morte di metà della razza umana non fermando il suo miglior amico, ormai infettato col il virus zombi.
Alessandro scrivendo ci porta a riflettere in maniera atipica. Il personaggio di Dylan Dog, almeno secondo una certa interpretazione della concezione sclaviana ci si presenta solo come una delle infinite versioni di se stesso. Ragione per cui quando leggiamo una sua storia, salvo rare eccezioni, è quasi come se leggessimo la prima avventura in presa diretta da un’altra realtà (almeno fino al curatore attuale – ndr). Questo ci porta alla concezione dell’eroe senza memoria, eterno baluardo della giovinezza estrema, che, senza ricordi né esperienza, rimane per sempre fedele a se stesso.
Il Pianeta dei Morti contraddice proprio questa concezione, spingendoci a vedere un Dylan invecchiato, amareggiato, cinico, privato della sua spalla comica. Un uomo reso fragile dalla vita e ferito da quello che per tutta la vita gli è stato evitato : i ricordi. E proprio sul concetto di ricorso che Alessandro va a toccare con questa storia intitolata la Casa della Memoria.
Ci sono due tipologie di ritornanti che popolano questa Londra solo apparentemente futuristica. I morti, gli zombi, che conservano un barlume della loro essenza, riprodotta in azioni cicliche che li fanno somigliare a droni, pallide imitazioni di quello che erano. E poi cominciano a comparire degli esuli da posti chiamati Oasi. Posti dove pagando una fortuna si dimentica tutto il passato recente e si è costretti a rivivere un eterno presente.
Dylan è sull’orlo di una crisi eppure il concetto stesso di un eterno presente avulso dai ricordi lo affascina quasi quanto il suicidio assistito che pensava di mettere in atto. L’abisso dell’oblio esercita un terribile fascino e l’incontro con Sybil Browning, emersa direttamente dalla primissima apparizione di Dylan procura un brivido prolungato lungo la schiena.
Il progetto delle Oasi è un concetto utopico, distante dal logorio della vita moderna. Rappresenta un baluardo ultimo di civiltà presa in cattività. L’imitazione della vita in un diorama in scala 1:1.
La Londra che Casertano disegna è netta, per nulla putrida. Una città che ancora cerca di resistere all’entropia e popolata da un’umanità che ancora è tetragona alla piaga zombi quasi fosse una pandemia qualsiasi.
Il suo tratto, marmoreo e netto, non lascia spazio ai chiaroscuri. Al contrario ci troviamo di fronte ad una personificazione quasi filmica dei personaggi che ne trasmettono un sapore quasi vintage, da film horror di serie D(ylan). La sua gestione dello spazio bianco permea dalla drammaticità delle espressioni, e ci propone un azione lenta che riusciamo a comprendere come priva di qualsiasi colonna sonora se non un’oscura B-side di Nick Cave and the Bad Seeds.
La scelta di questi volumi, pubblicati su base quasi annuale, è azzeccata e ben confenzionata. A partire dal logo che richiama quello classico oltre che quello delle Clark che Dylan non dimentica mai di indossare, ovvio.
La resa grafica e l’impaginazione rendono il giusto omaggio a queste storie che oltre ad essere scritte da uno dei migliori talenti della sua generazione, vantano un comparto grafico di altissimi livelli ed in perenne rilancio verso l’alto. Peccato che in questo volume, comunque più corposo del precedente, ci sia poco spazio riservato per i redazionali, schizzi preparatori e dettagli di produzione che avrebbero invece contribuito in buona misura a rendere questo volume ancora più prezioso di quello che è.