Arriva con un po’ di ritardo questo nuovo episodio dell’investigatore dell’Incubo per antonomasia. Carlo Ambrosini è uno sceneggiatore esperto e si produce in una storia che unisce fisica quantistica e confini della realtà senza soluzione di continuità. Non a caso la storia inizia nel prestigioso King’s College di Londra, alla facoltà di fisica. Uno dei posti dove la leggenda metropolitana vorrebbe vedere affissa la targa sul coleottero che ignora le leggi delle fisica e pertanto vola.
Ambrosini tira in ballo il fisico/filosofo David Bohm e la sua teoria di ordine implicito ed esplicito. In semplici parole non ci è dato comprendere l’ordine implicito, o realtà intrinseca delle cose. Al contrario comprendiamo l’ordine esplicito che è un modo in cui il cervello riorganizza le idee tenendo conto anche delle perturbazioni fornite dall’ambiente esterno. In altre parole la realtà non solo è soggettiva, ma anche in quel caso è una pallida imitazione di qualcosa cui non riusciamo a prevedere. La caverna di Platone insomma. Sette millenni di evoluzione per ritrovarci sempre allo stesso punto.
Il contesto però si presta in maniera molto interessante alla storia. Se devo essere onesto, il soggetto in sé avrebbe potuto applicarsi molto bene ad un contesto stile Washington Mews (sto parlando del buon vecchio zio Martin Mystere, ovviamente), mentre nell’ambito dell’Indagatore dell’incubo assume una connotazione prossima al genere weird che recupera a piene mani suggestioni di origine differenti.
La storia si basa di fatto su due piani spazio-temporali differenti. Da una parte abbiamo Dylan ed una stanza spiritata, in cui compaiono trilobiti ed altre mostruosità mesozoiche per poi scomparire come polvere al vento. Dall’altro lato abbiamo guerrieri vichinghi braccati dall’esercito romano. Il punto di connessione tra le due è un armadio, in piena tradizione Narniana che mette in comune i due mondi quasi come se fossimo in un episodio del dottor Who.
Nel suo svolgimento quasi accademico la storia soggiace ad un ritmo anti-climatico che pure permette di farne godere l’aspetto più divulgativo. Non tutto viene raccontato, in perfetta linea con la prima regola del narratore (show, don’t tell), ma il gioco di interpretazione si basa tutto sull’atmosfera creata. Atmosfera che ben si fonde con la concezione pre-meteora del multiverso Dylaniato per cui ogni volta che si leggeva un numero poteva essere la prima avventura di un altro Dylan. E qui, forse, ne abbiamo addirittura due.
La sola perplessità, infatti, resta quella legata al contesto. Una storia di questo genere avrebbe forse calzato meglio il contesto dell’oldboy mentre al contrario, in una continuità più serrata non dico stoni, ma funziona con un volano più lento.
Le matite sono affidate a Gabriele Ornigotti che ricarica ogni angolo di un quantitativo importante di rifiniture. Quello che colpisce maggiormente l’occhio è la definizione di corporature ed espressioni facciali. Pur avendo un tratto che dove i tempi comici lo permettono, scivola nel cartonesco, nella maggior parte delle scene è granitico e ben composto. Ogni personaggio è perfettamente distinguibile e riconoscibile. Movenze, mimica, li rendono unici seppur resi con un tratto classicheggiante.
La concezione filosofica è forse l’elemento di maggior risalto di questa storia che pure non scade mai nel pacchiano o nel didascalico. Il Dylan che qui appare, come spesso succede anche con Tiziano Sclavi in persona è un testimone degli eventi, un viaggiatore, un crononauta che deve testimoniare la mostruosità dell’animo umano. E le illusioni che a volte ci raccontiamo per (soprav)vivere.