Dylan invecchiato, sconnesso dai soliti cliché di Craven Road. Persino senza Groucho. La fanbase dell’indagatore dell’incubo più famoso che il mondo del fumetto conosca su queste sponde dell’oceano deve aver tremato e non poco a vedere mescolate le carte.
Eppure Alessandro Bilotta, che è un saggio conoscitore dell’eroe in Clarks, ha capito una cosa importantissima. Tanto quanto Sclavi era stato capace di creare un eroe romantico uguale a se stesso ad ogni avventura, tanto c’era bisogno di sparigliare le carte per creare qualcosa di differente e, allo stesso tempo angosciante.
Che ha sfociato nel più recente volume in un capolavoro assoluto (una risata vi resusciterà, della coppia BIlotta/Gerasi, appena pochi mesi fa) e, tanto basterebbe per dichiarare il progetto un successo totale.
Ma il progetto concepito era, ed è, molto più ambizioso. Spostare Dylan da quell’immobilismo cui la sua ontologia narrativa lo ha condannato. Farlo invecchiare, spingerlo via da quella spalla comica che a volte è funzionale e alle volte è solo noiosa. E poi osare molto più di quanto qualsiasi curatore abbia mai tentato. Regalare a questo nuovo, frantumato Dylan, una continuità narrativa, ripetuta speciale dopo speciale, sotto l’egida della saga de il Pianeta dei Morti.
Questi speciali hanno saputo catturare l’attenzione al punto da divenire un appuntamento regolare. Appuntamento, da un paio d’anni a questa parte, riproposto in formato gigante dalla Bonelli stessa (dopo un timido approccio anni fa da parte di Bao) con corredo di note aggiuntive dello stesso Bilotta.
Arrivati al terzo capitolo, la fine è il mio inizio, il mondo narrativo è ormai sufficientemente definito. Il virus dei morti viventi è finalmente riuscito a prendere il sopravvento. Quella che un tempo era solo una momentanea apparizione di queste creature, è diventata una presenza civicamente tollerata. Al punto da tenere i morti al centro di un dibattito politico con tanto di estremisti che assumo posizioni reazionarie e suggeriscono collari e (magari) museruole.
Intanto i morti dilagano, sono una pandemia sotto controllo, ma rendono la vita meno piacevole e di sicuro più problematica. Così arrivano a formarsi delle oasi particolari, oasi che ricostruiscono l Londra di un tempo e dove chi può permetterselo, scegli di drogarsi e dimenticare. Pensieri offuscati e scarsa memoria a breve termine sono perfetti per chi vuole lasciarsi alle spalle un disturbo da stress post traumatico. Proprio come Dylan che deve convivere con la consapevolezza di essere responsabile delle fine del mondo. Un oblio che riporta all’eterna esistenza uguale a se stessa. E bè, alla tintura per capelli.
Come aveva già pensato a suo tempo George Romero, nel suo Giorno dei Morti Viventi, può benissimo essere che queste creature tumefatte, ridotte al rango di bestie feroci, col dovuto tempo e la dovuta cura, possano perfino tornare a riconquistare un barlume di coscienza, una frazione minimale di quello che erano affogato nell’atavica rabbia di una esistenza strappata al giusto riposo.
L’oblio sembra essere il tema dominante di questo volume. Dylan, redivivo, dimentica e Groucho, redimorto, ricorda. Il problema nasce dove un oscuro antagonista ritorna. Se ci sono i morti e c’è Dylan, Xabaras potrà mai essere lontano? Ecco, appunto.
Tra l’altro qui, Giulio Camagni lo rende sorprendentemente simile a Dario Argento, omaggio nell’omaggio. In generale Camagni, dotato di un tratto tanto elegante, quanto classico contribuisce all’atmosfera indolente, così lenta da ferire, restituendoci un Dylan esistenzialista, più massiccio del personaggio cui siamo abituati, e allo stesso tempo fragile, già pronto ad andare in frantumi.
Questo volume rappresenta la consacrazione, non tanto per Dylan, ma per questa saga. Lontano dagli stereotipi e ormai lanciato in un mondo dove tutte le pedine sono in campo, il Dylan de il pianeta dei morti si appresta ad attraversare le mille versioni che conosciamo di lui per presentarci quella in cui più crediamo, quella umana e colma di miseria, che deve ancora venire.