Adoro le cose che scrive Gene Luen Yang. Ho divorato Dragon Hoops, la sua disamina su amanti di sport e di fumetti era quasi convincente (capitemi, il mio schieramento l’ho scelto decadi or sono, ma la dissertazione era buona e lo storytelling eccelso). Ma aspettavo al varco l’edizione di American Born Chinese, Eisner Award del 2007.
C’è parecchio spazio temporale tra questi due capisaldi della narrativa a fumetti. Ma già in questa prima opera possono percepirsi i germogli di una grande capacità di creare plot twist e tenere il lettore incollato fino all’ultima pagina.
Pur riferendosi ad un determinato gruppo di persone, Yang riesce ad essere universale e, nella sua capacità di scrittura si vanno ad incastonare gli elementi chiave di un certo modo di scrivere storie. Dovete considerare che, di fatto, le sue opere sono applaudite dalla Me Generation. Ed in quanto tali, racchiudono la capacità di raccontare storie personali, introspettive. Slice of lives, o racconti di vita vissuta, che colpiscono dritti al cuore per veridicità ed empatia.
La condizione necessaria perché tutto questo funzioni, è che sia credibile. Non ci si può inventare di essere depressi o emarginati. Deve essere una cosa che ti è cresciuta sotto pelle. Che invece di farti impazzire ti ha portato a metterti in gioco e a raccontare te stesso. Ed è in momenti come questo che la semplicità si complica, bisogna aggiunge un substrato di preparazione e storytelling quanto basta.
Prendete ad esempio questo American Born Chinese. Apparentemente racconta la storia di un ragazzo cinese, americano di prima generazione e della sua difficoltà di integrarsi in una classica comunità wasp (non credo sia un caso che compaiono pochissime persone di colore nelle pagine del racconto). La struttura della storia è basata su un intreccio narrativo che vede intervallarsi questo arco ad altri due. Uno che non è altro se non la narrazione del Sengoku (si proprio quella fiaba che ha ispirato Dragonball, lo scimmiotto sulla mano di Buddha) ed un altro che racconta una storia di integrazione ancora più iperbolica con protagonista un bizzarro cugino che incarna alla perfezione tutti gli stereotipi che la cultura occidentale ha saputo attribuire ai ragazzi provenienti dalla Cina.
Apparentemente sono tre store slegate. Messe assieme in modo così incoerente che si arriva ad un punto, a circa tre quarti di libro, che viene da chiedersi il perché di questo bizzarro elemento narrativo e cosa, esattamente, voglia provare. È la il momento in cui si deve saper pazientare, perché in un gioco molto più veloce dell’occhio che lo accompagna, Gene Luen Yang ci mostra la connessione e tutto, incredibilmente, diventa una complessa storia iperconnessa sin dalla prima pagina.
Il tema della accettazione, della mimesi, perfino della trasformazione, viene toccato con puntualità e leggerezza permettendoci di farci capire come, ancora oggi, essere accettati è tanto necessario quanto difficile.
Ancora una volta, con semplicità ed eleganza narrativa. E con la trasmissione di un messaggio semplice, eppure mai banale che punta ad evidenziare come non ci si debba mai vergognare delle proprie origini e che anzi, in determinati casi, rappresentino la nostra forza.
Ve la sto raccontando più banale di come è. America born chinese invece merita tutti gli elogi che ha ricevuto perché riesce a provare il punto con una precisione stilistica assolutamente invidiabile.
Graficamente, siamo dalle parti di un segno preciso ma stilizzato. Colorazioni leggere, quasi pastello, ed uno studio dello spazio della pagina forse n po’ acerbo ma interessante. E sicuramente funzionale alla storia.
In ultima analisi vanno i complimenti a Tunuè per la resa del volume, perfetto in ogni suo dettaglio grafico e magnificamente impaginato.
Una storia piacevole, raccontata con maestria, ma senza dimenticare, mai, davvero mai, la leggerezza.