Ritorna dopo la kermesse lucchese il giornalista amante dei gossip Sant’Alceste, ultima tra le creature di Alessandro Bilotta. Nella Roma teleriferita che assorbe a piene mani la lezione de La Grande Bellezza, questa volta Alceste deve convivere con le conseguenze del passo falso dell’episodio precedente.
Bilotta non indugia nel raccontare come la fama sia un’entità quanto meno volatile e mentre tutti camminiamo sulla lama del rasoio per mantenere i nostri profetici quindici minuti, basta in realtà uno scivolone, od un piede messo male, a farci perdere tutto.
È questo che teme stia per accadere ad Alceste ed è questo che succede a Tito Forte, giornalista d’altri tempi a cui va intitolato l’albo. Tito, uomo corretto e privo di scandali, inciampa in qualcosa che, per limiti anagrafici e di popolarità, non può essergli perdonato. Così, mentre il mondo va avanti a sua insaputa, tutti , dai vecchi amici alle possibilità lavorative si estinguono e Tito, che comincia proprio per questo a legare con Alceste, finisce con entrambi i piedi in questa parabola discendente.
Io amo il lavoro di Bilotta, credo sia difficile trovare qualcosa di scritto male o svogliatamente. E, spesso mi ritrovo a rileggere più volte le sue cose proprio per cercare di comprenderne alla perfezione il significato. Tutto insomma mi fa scommettere sulla profondità di questa sua interpretazione in chiave weird della Roma dei paparazzi. Per la verità, dopo i fuochi d’artificio del primo volume non ci si poteva aspettare nulla di differente che un secondo volume downtempo ed intimista. E su questo, la cifra stilistica di Bilotta non sbaglia. C’è un bonus aggiunto in questo volume che mi ha fatto sorridere e poi ghignare di soddisfazione. La metafora di Tito, incluso il suo bislacco rientro nelle scene è uguale a quella del personaggio di Carlo Verdone in Perdiamoci di Vista. Uno dei film più intimisti e meno compresi del regista romano (per forza, è lontano dai cliché e lavora al netto del bisogno disperato di piacere).
A mantenere il polso della narrazione sono i dialoghi sagaci, freschi, assolutamente non decompressi di Bilotta che in Eternity sembra voler regalare un omaggio colossale alla Roma che spazia da la Dolce Vita fino ai tempi di Twitter.
A tenere le fila graficamente, in questo volume c’è Matteo Mosca, assiduo collaboratore di Bilotta e capaci oltremisura di interpretarne gli umori delineando una scenografia solida su cui far passeggiare gli animi eterei di Alceste e dei suoi pari. Perché a volte, sembra davvero di leggere la storia di un paradiso romano dove tutte le celebrità agognano a vivere per sempre. L’eternità delle terrazze del centro diventa cosa concreta, e l’odore degli alcolici e le vibrazioni da musica lounge sembrano essere cosa concreta e pulsante,
Ma tutto questo non avrebbe senso senza la geniale colorazione a tinte acide di Adele Matera. Capace di adattare il suo stile all’intimità del momento raccontato, le sue colorazioni ci rimandano alla cultura del rotocalco perenne dove non c’è fine ma soltanto un eterno ricominciare.
E non mi sembra un caso che la tematica del tempo che si arrotola su se stesso ma che alla fine ritorna sembra davvero essere l’architrave di questa epopea sognante e nostalgica.
Che, in qualche modo, riesce perfettamente a delineare i meccanismi astrali contemporanei.