Giorni di sabbia è una di quelle storie che si possono definire importanti. Aimée de Jongh si inerpica in un territorio, quello dell’America, di non facile percorribilità per gli oriundi. Ma Giorni di Sabbia è uno spaccato della realtà. E come tale applicabile persino al presente.
Per quello che mi riguarda, mi sono innamorato di questo libro a partire dalla copertina. Quel giallo tenue, pastello. Quella sensazione di disperazione. Conosco le storie del Dust Bowl da quando attraverso le liriche di Springsteen venni a conoscenza della famiglia Joad. Non mi avvicinai al film di John Ford, ma direttamente al libro di Steinbeck. Senza sapere che l’edizione che girava in Italia negli anni ’90 era la stessa tradotta, e censurata, durante il Ventennio. Da là a dare del tu a Woody Guthrie e alle sue Dust Bowl Ballads è stato un attimo. Per certi versi, il disastro ecologico che si verificò da quelle parti all’inizio del secolo scorso è alla base di quanto, in letteratura, musica e cinema amo dell’America.
Negli anni trenta un incremento improvviso di agricoltura e allevamento portò la terra ad inaridirsi e trasformarsi in sabbia. La siccità trasformò la sabbia in polvere. E per anni il centro degli Stati Uniti rischiò di trasformarsi in un nuovo Sahara. E, se è per questo, ovunque ci sia allevamento ed agricoltura intensiva, quel rischio esiste ancora. Per questo vi dico che il racconto dei giorni di sabbia è terribilmente attuale.
La De Jongh ci racconta di un ragazzo, fotografo in perenne conflitto con la fama del padre, cui viene offerto di andare a documentare quello che sta accadendo. Gli viene affidata una lista di cose da fotografare con lo scopo di sensibilizzare governo ed opinione pubblica. Per questo fine, gli viene chiesto di ‘abbellire’ alcune pose. Sacrificare un po’ di verità, al fine di ottenere il suo scopo.
Il dilemma di John Clark inizia con il suo viaggio. Fotografare la verità, essere convinto che un’immagine dica assolutamente più di mille parole, oppure porsi dubbi, scavare, anche fisicamente, sotto la coltre di sabbia ?
L’impianto narrativo funziona con il ritmo del viaggio. I giorni si susseguono con John alla ricerca delle immagini perfette. Quello che cambia nel frattempo però è il suo modo di approcciarsi agli abitanti del posto. Non più sconosciuti, ma bambini, uomini, donne, sopravvissuti. La scoperta, giorno dopo giorno di quanto sia nocivo respirare sabbia lo rende più consapevole e, finalmente, capace di confrontarsi con la verità che cerca di raccontare a se stesso. E che non è più sufficiente.
Sullo sfondo, la storia del Dust Bowl, di come davvero un’agenzia americana cerò di documentare quel particolare momento storico producendo un archivio con più di 25000 foto. Lo stesso archivio che la De Jongh, in aria di Eisner, frequentò per documentarsi. E non è un caso che dietro ogni capitolo della storia, ci sia uno scatto in bianco e nero originale.
La De Jongh riesce a rendere alla perfezione anche graficamente il confronto tra uomo e natura. La scelta dei colori, virati tutti sull’ocra contribuisce a rendere il paesaggio claustrofobico ed opprimente. Lo stile, tondeggiante in modo da richiamare in alcuni casi più i maestri giapponesi (Jiro Taniguchi su tutti) che quelli franco-belgi, alterna character design umani, dotati di occhi scintillanti, ad una resa paesaggistica quasi naturista.
Il finale della storia vi lascerà con l’amaro in bocca, è già un avvertimento. Ma è un tipo di amaro di cui non si può davvero fare a meno.
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