Pubblicato a ridosso della recente kermesse lucchese, l’abisso e l’oblio ci offre l’ennesima gita nella memoria del passato devastato della Spagna grazie al lavoro congiunto di Paco Rosa e Rodrigo Terrasa.
A Paco Roca piace parlare della memoria. Di più, ama la storia del suo paese e ritiene che sia importante trasmetterla. Che si tratti della storia di una famiglia che eredita una casa (il meravigliosissimo la Casa) o che si finisca per parlare del post franchismo (Ritorno all’Eden, ve ne parlo qui), dal macro al micro, la sua inimitabile penna c’è, ed ogni volta non si tratta di piangere, ma è solo un ricordo che ci finisce negli occhi.
Con L’abisso dell’oblio, Paco, coadiuvato – ma a dire la verità, spronato – da Rodrigo Terrasa, ci porta nei meandri di quella che è una storia vera intrecciatasi con le vestigia della Storia.
É Terrasa stesso a raccontarne l’antefatto sul finale del volume. La storia è quella di Pepica Celda, ottantunenne ai tempi della storia, ultima ad aver avuto l’autorizzazione ed i fondi per cercare in una fossa comune dei tempi del franchismo, il corpo di suo padre.
La storia è straziante, e fa dubitare seriamente della bontà dell’essere umano. Pepica vede suo padre l’ultima volta nel 1940. Sua zia le raccomanderà di non piangere perché il padre, il giorno dopo sarà condannato a morte con fucilazione dal regime franchista.
Con lui, nello stesso periodo, verranno seppellite in fosse comuni altre duemila persone, accusate di essere più o meno colpevoli di associazioni con il comunismo durante la guerra civile. Questo solo nel piccolo borgo di Paterna.
Per anni, dimenticati in fosse comuni profondissime, i resti di queste persone hanno reso difficile chiudere i conti col passato. Per i loro cari, ovviamente. Ma per molti altri, inclusi i cari dei loro carcerieri, riaprire quelle fosse, significava riaprire una ferita mai veramente chiusa.
Eufemismo del secolo, una guerra civile è banalmente divisiva.
Così Pepica lotta contro la burocrazia, e poi con le difficoltà della scienza, perché identificare un cadavere dove ce ne sono già seppellite altre centinaia non è semplice e a volte anzi, è addirittura impossibile. Poi ci sono le persone, quelle che non vorrebbero si facesse, quelle che non ci credono e quelle che si impegnano per riuscirci.
Mentre Terrasa e Roca ci raccontano la storia di Pepica, scopriamo quella di Leoncio, il becchino del cimitero di Paterna. Un uomo dalla bontà infinita che rischiò la vita in più di un modo al fine di poter dare alle famiglie dei fucilati qualcosa, un bottone, una ciocca di capelli, per poter ricordare i loro cari.
Non a caso, tra le pagine, viene citata la vicenda di Achille e Patroclo. Di come uno non trovasse pace senza poter dare sepoltura, e quindi un addio all’amico.
L’abisso dell’oblio è esattamente questo. Una condizione psicologica in cui ci trova sospesi senza poter andare avanti liberamente, ma rimanendo doloranti incontro ad una esistenza che ci è stata strappata davanti ai nostri occhi.
Paco Roca affronta questo tema con la sua consueta sensibilità. Anche quando non dice, in realtà dice moltissimo. La sua capacità di empatizzare, e di trasmettere quell’empatia, ci porta nello stesso spiazzo del cimitero di Paterna ad attendere che i resti vengano portati alla luce. E non credo possa esistere speranza più triste.
Graficamente il lavoro si attesta sullo standard cui Paco ci ha abituati, regalandoci tratti semplici, puliti ma efficaci. La colorazione fa tutta la differenza del monto. Virata su punte di marrone che dovrebbero ricordare le fotografie virate in seppia del secolo scorso, invece ci ancora al presente, ricordandoci per bene che una cosa accaduta quasi un secolo fa, in realtà, è di una modernità straziante.
La narrativa, in tandem con Terrasa, si arricchisce di comparto di dati storici e ricerche che, appena, la rendono didascalica, ma nel senso buono del termine. D’altra parte è uno scatto perfettamente a fuoco di quello che accadeva ad un paese vicinissimo al nostro e di cui, ancora oggi, nei libri di storia locale, si dice poco.
Un applauso lunghissimo va poi a Tunué, per aver confezionato, come al solito, una edizione strepitosa.
Bella come la storia che contiene e che come tutte le Belle Storie, non si riesce a smettere di leggere, una volta iniziata.
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